domenica 13 ottobre 2013

Un poeta dei nostri giorni, Erri

Libro: Storia di Irene

Parola: pace

Di un autore come Erri De Luca si dovrebbe parlare solo se si è preparati, perché è troppo famoso per avventurarsi in analisi che susciterebbero risa o rabbia nei suoi lettori affezionati.
Io non sono preparato sull’autore. Di solito penso alle opere, non a chi le scrive (lo vedrei come un condizionamento del marketing).
Ho letto “Aceto, arcobaleno” dieci anni dopo la pubblicazione.
“Il peso della farfalla” quando avevo iniziato la mia nuova vita da tre anni. Non faccio confronti.
Adesso è nelle librerie – e anche, copioso, nella mia – “Storia di Irene”, e l’ho letto subito, perché mi piaceva il titolo. Appena arrivato, l’ho iniziato. Era il giorno prima della pubblicazione, ed è stata un’esperienza molto intima, un esperienza notturna, quasi monastica, fatta di ritorni alla riga prima.

“Storia di Irene” mostra un intento di essenzialità: vi racconto una storia che parla di Irene.
So che l’autore procede spesso secondo delle regole apparenti , e mi dico “ora come ora, mi ci vuole lo stile essenziale di De Luca”. Dico “apparenti” perché non voglio fare il critico letterario: a me paiono regole, ma non so se lo sono o se sono intenzionali. Un mio amico conosce bene De Luca: chiederò a lui (http://www.dabe.it/category/libri). Posso dire che trovo la scrittura pulita, forte e attraversata dall'amore per la lingua.
La mia lettura procedeva per didascalie. E alla fine avevo visto una storia.
Irene è una ragazzina che il narratore, straniero, incontra su un’isola greca.
Il nome del narratore non sta scritto in nessuna riga, ma potrebbe essere Erri – vi dirò poi perché. Irene non parla con le parole. Comunica con il forestiero (mi piace tanto questa parola) attraverso un altro linguaggio.
Non ha genitori, vive da sola sull’isola, ed è isolata, perché porta in grembo una creatura, nonostante la giovane età.
Le poche donne del posto le sono ostili. I pescatori pescano.
Lei preferisce star coi delfini.
I delfini sono insospettabili protagonisti, in questa storia. E' un pregio all’opera.
I delfini sono un simbolo, ma invito ciascun lettore a produrre una interpretazione personale: è una possibilità, e un grande dono che ci fa l’autore; la mano che ce lo porge il dono si chiama "essenzialità"; esso è fatto “togliendo” anziché “dando”, ma per questo vale di più.
Critico letterario o no, proseguite nella lettura, perché vi offro un po’ della bellezza che ho trovato sulle pagine dello scrittore campano. Che è alpinista lo sapevate già? Bene!
Intanto ci sono ragioni a sufficienza per postare le impressioni suscitate da “Storia di Irene”.
Quando l'oggetto del post è un libro, il post è lungo. Da me funziona così.
Qui si parla di libri e di passione per la parola: lo stile di De Luca esalta la parola, la mette su un piedistallo, di legno, basso e disadorno, ma sempre piedistallo… Innumerevoli gli esempi, i miei preferiti li elenco e li grassetto.
Sì! Sarà un elenco.
Caro Autore, ti cito letteralmente, perché, da poeta, usi formule perfette e perché il riassunto sarebbe impossibile. Lo faccio per i lettori, ma anche per te, perciò non mi denunciare, se puoi.
“Nel greco imparato al liceo esisteva la parola eirene, a indicare una pace. Le dettero quel nome dopo la tempesta.
Il mio invece è buffo (Erri, voce del verbo errare: viaggiare – sbagliare, dico io) […] Ora è un nome di fortuna. Accompagna qualche titolo di libro, più da autista che da autore (si da’ un aut-aut, dico io). Faccio il conducente (errante, d.i.) di storie.”

Questo brano spiega come il narratore possa coincidere con l’autore (o autista, come preferite).
“Irene dice che i nomi sono fischi, servono a chiamare. Il suo squilla nel mare, tra i delfini che giocano a chi lo lancia più lontano. In terraferma è spento, nessuno chiama una sordomuta.
Le frasi di Irene non usano la congiunzione e, lettera che disegna un nodo (e in corsivo, dico io). Le lingue che conosco non possono fare senza, per legare.”
Questi passaggi ci fanno incrociare l’attenzione di De Luca per i nomi e per le parole, e mettono i nomi tra i temi dell’opera. Questo libro è sui nomi, sulle chiamate, sui significati. Il tutto perfettamente disciolto in un racconto. Pensi anche alla Poesia, inevitabilmente. Doppio piacere. Guardate che salto dalla pagina fa la congiunzione “e”: esce dal piano della stampa, dove stanno tutte le lettere della storia di Irene, e vi chiede di scriverla in corsivo; sul tavolo, o a bordo pagina, a matita o a penna, ma in corsivo. Tac: è un dannato nodo, la “e”. Semplice, ma nuovo. Ci viene ri-velato un nesso tra significato e segno grafico che, forse, ci era stato seminato nel cervello a sei anni d’età, dalla maestra delle elementari. I legami a Irene non piacciono, perciò non usa congiunzioni. Che legano.

In perfetta sintonia con la maniera asciutta di narrare storie per immagini, De Luca ricorre volentieri al simbolo.
Lo specchio è un simbolo molto famoso. I letterati, che mettono sempre ciò che pensano su un foglio – o in un video – di fronte ai propri occhi, hanno una certa dimestichezza con questo simbolo.
Nemmeno i più grandi hanno evitato il confronto con il simbolo dello specchio.
“Ha un coccio di specchio, lo porta ai delfini, i più giovani saltano intorno per vedersi. Fanno le acrobazie per guardarsi nel vetro di Irene.”
Delfino nello specchio: simbolo nel simbolo. Grazie De Luca! Quante immagini offri! Tante le finestre che si sono aperte quando ho assistito allo stupore di un delfino che per la prima volta vedeva la propria immagine riflessa!
Adesso penso sia giusto aggiungere il dettaglio dell’andare a capo allo stesso modo in cui si va sul libro fisico:
“Le racconto di un labirinto di specchi che
c’era nell’epoca d’infanzia a Napoli. Ci si en-
trava pagando un biglietto, il traguardo era
uscirne, un gioco simile all’alpinismo. […]
Distratto dai troppi me stesso, prendevo zuc-
cate nei vetri, […]
Chiusero il labirinto per troppi incidenti e bernoccoli. Ride di più.
Ricordo dei versi di uno che non amava gli
specchi e scrisse una poesia contro di loro:
oggi, al capo di tanti e di perplessi anni
a vagare sotto varia luna,
mi chiedo quale azzardo di fortuna
mi procurò il timore degli specchi.”

Il buon vecchio Borges, esperto di labirinti, ammette di sentirsi fortunato a temere lo specchio.
De Luca ha letto e tradotto Borges. Un altro che trattava con estremo rispetto le parole; uno scrittore considerato Maestro da alcuni scrittori.
Noi capiamo che Irene è uno specchio per chi sta con lei.
Il narratore sta facendo un percorso, grazie a questa bambina-madre silenziosa ed enigmatica.
E sa che distrarsi con sé stessi è tema diffuso, frequente ostacolo di tanti percorsi.
Quando scambiamo la nostra storia con qualcuno, o con qualcosa, con un quaderno, con un animale, noi scriviamo una parte di quella storia. E scriverla ci aiuta a comprendere, se non altro per tentare di farci comprendere dalla controparte.
Senza parole, Irene “dice” di sé. Richiede un ascolto speciale, che al silenzio somma l’interpretazione. Chi è l’interprete? Chi il prete? Chi il sacerdote di questa liturgia del silenzio?
La nostra coscienza profonda. Il mare che è dentro di noi.
L’immensità molteplice...
eppure racchiusa.
Il posto dove non andiamo quasi mai. Dove troveremmo un “qualcosa” di noi scomodo da tener presente. Ho citato Ligabue? Meglio andare avanti.

“[…] con l’Africa è diverso.
Chi è stato o si è fermato in un suo minimo
cantuccio, può dire di averla abitata.
Parlavo allora il kiswahili, una lingua che ignora il verbo avere,
attenta a distinguere nella grammatica gli esseri umani,
gli animali, le cose.”
Quando sono arrivato a questa pagina, il naufragio di Scicli era già avvenuto. Il viaggio era iniziato una settimana prima: quando avevo il libro tra le mani, di  notte, quelle persone viaggiavano in mare aperto. Che distanza posso mettere tra la mia veglia di lettura e la loro veglia di sopravvivenza? Tutte le gocce di tutti gli oceani, disposte in fila per uno. Dopo aver letto le notizie del naufragio, i tredici morti e tutto il resto, ho ripreso il libro: ho trovato tanti punti di contatto.
In una lingua africana non c’è il verbo avere. Perché mi stupisco?
E’ la verità o la visione di un poeta? (La Poesia insegna che le due cose possono coincidere.) Io leggevo, quelle persone viaggiavano e morivano.
Non dimentico che poi è seguita l’ecatombe, Lampedusa, e la sensibilità dei media. Questa pagina resterà anche quando l’emozione sarà passata.
Forse solo allora sarà utile: a ram-mentare. O a rammendare.
Contesti diversi, ma il rombo delle cronache lampedusane è così insistente che, appena trova un appiglio, la mente cuce pezze tutte diversi, ma utili messe assieme:
la pagina è 47 - a Napoli un numero che parla - “loro” sono i reduci sia della fame che dello storico viaggio di Colombo e dei suoi equi-paggi, perchè loro qui oggi credono ci sia l'America:
“allo sbarco sull’isola d’estate, riepetevo a
bassa voce le sillabe della loro euforia. ‘Tierra.
Da inginocchiarsi per baciarla, dopo nove mesi nelle viscere della città balena”
Qui la città balena altro non è altro che la caravella di Cristoforo Colombo sotto metafora; il viaggio cui si riferisce l’autore è un suo modesto traghetto dal molo Beverello, nel porto di Napoli, e il simbolo che gli torna in mente è evidentemente la ricerca delle Americhe.
Non mi metterei a scrivere forzate associazioni tra il viaggio del 1492 e quello del 2013.
Però sì: le faccio a mente, senza scriverle. La traversata, la speranza, la ricerca di miglior sorte. 
“Mi toglievo le scarpe e inauguravo la stagione scalza.
Il cielo rotondo a semicerchio, che invitava chiunque a essere il centro.”
Scendevi dalla barca, con l’ansia alle stelle. E le stelle in alto. Ti spiaggi, e respiri forte...
Sei vivo, il mondo sotto di te, il cielo sopra. In mezzo, tu. Già che ci sei, ti senti il centro.
Sai di avere poche possibilità, ma te ne basterebbe una sola per sentire di potercela fare. Questo mi viene in mente se penso a una persona che decide di lasciare la sua terra per fame di cibo o di diritti, ma è un’immagine che rappresenta anche me.
Non sono in fuga per la salvezza, ma mi sono figurato –forse è un’allucinazione?- il mio mondo come un mare forza 9, nel quale stento a galleggiare. E mi piacerebbe, davvero, navigare in acque meno pericolose, starmene tranquillo, col poco che mi farei bastare. Un tavolo, un libro, una coppa di gelato o un caffè. In pace. Eirene.
Mi accontento perché posso accontentarmi. Se però non potessi, cercherei anch’io un mezzo di fortuna, e darei tutto ciò che ho per giocare la mia sola chance. Punto interrogativo.
Ma dov’è finita Irene? Eh, non la troverete qui. C’è il libro, se volete.
Qui, invece, trovate un finale di post a base di parole e simboli, ancora.
Qui, il racconto è il secondo del libro (totale = 3), e tratta della salvezza del nonno-soldato di De Luca, seconda guerra mondiale.

Pagina 92: “fu una traversata quieta, di tre ore. Arrivarono a ridosso di Capri e vollero evitare il porto di Marina Grande, dove sarebbero stati fermati e trattenuti. Cercarono un attracco tra gli scogli.
Il mare lento non dava rischio di sbattere contro l’aspro della costa. […] Avevano raggiunto la terra liberata e coincideva per loro con la villeggiatura. Si erano tolti la guerra di dosso.

E festeggiarono, in silenzio, con pacche, abbracci, esultanze mute.”

sabato 5 ottobre 2013

perchè perché PERCHE'

(Nel sogno

... "perché" ha un brutto suono. parola importantissima, va bene! usata spesso, tanto da non farci caso, e detiene ruoli chiave! ma è brutta! cuel "erk" che restituisce scricchiolii, bokkacce, spacchi, e quella e accentata finale che classifica, infingarda, i dialetti imparentati alla lingua italiana. perchè? perché? pérché?eppèrk'? pekké? tutte varianti egualmente in uso. tutti suoni bruttini, tutti sballati...


Al risveglio)

Ieri sera, in libreria, un gruppo di clienti forestiere (ecco una parola bella!) mi ha fatto diverse richieste libresche e mi ha detto tanti "perchè".
Stamattina le vorrei salutare con gratitudine e allegria, nonostante i sogni agitati che ritengo dovuti a loro. O no, chissà. I loro perché mi sono rimasti in testa, ed è stato come portarsi il lavoro a casa. "Perché volevamo un libro piuttosto che un altro."
"Perché dovremmo leggere i libri che ci consiglia?"
"Perché sa', questo genere non fa per me, non mi sta addosso, non mi entra, non è del mio tempo, non mi fa staccare."
"Ma - scusi - lei non è di qui. Perchè vive in questa città?"
e infine, in un crescendo tumultuoso:
"Perché fa il libraio?"
Una domanda molto bella. Importante, si va sul personale. In-effetti, sul personale c'eravamo già arrivati. E in un certo senso esserci arrivati è una valida spiegazione: faccio il libraio anche perchè così instauro dei rapporti con le persone. Anche.
Lì per lì, ho fornito alle interlocutrici la risposta breve, in tutta onestà. Pensavo: glielo dico o no? non è che per caso siamo tutti un po' stanchi? Gioco la romantic version?
Ho risposto perché erano simpatiche, oneste anche loro, e infermiere. Carine.
Erano le 23:00, era tardi, era meglio la versione corta. Fino a quel punto avevo (re)agito bene.
Qui, invece, leggete la versione lunga; una parte: la faccio a puntate (una minaccia?), perchè sicuramente mi verranno ulteriori risposte nel corso del tempo. C'è sempre qualcosa da imparare: dai libri, dai clienti e dalle mie reazioni.
Il libro è un oggetto fantastico.
Mi piace avere a che fare coi libri.
Se lavorare procura da vivere, vorrei che l'oggetto del mio lavorare fossero i libri.
Bisognava solo trovare il posto in cui lavorare coi libri e vivere bene. E l'ho trovato, o meglio ci ho portato la mia vita. Questo posto è una città di centomila persone.
Il contesto ambientale ha avuto la sua importanza: in questa piccola città ho trovato presto quello che cercavo, oltre al lavoro, intendo. 
Ci sono condizioni favorevoli per fare tutto quel che voglio. Evitare di usare l’auto. Fare lunghe passeggiate in silenzio. Mangiare bene. Sconfinare - cioè, passare il confine di stato - in capo a due ore. Persino fare il libraio per campare. In Italia. Pensa!
Al mio arrivo ero guardingo, pessimista. Poi mi sono sciolto, perché ho scoperto che c’erano delle affinità tra me e la gente del posto, non ultima lo splendente orgoglio di godere nel farsi gli affari propri. Amo i cortili chiusi dei vecchi palazzi del centro: lungi dall’evocare una nobiltà, “ascosa al volgo”, che pure li ha costruiti, rappresentano il piacere di coltivare la privacy integrale. Non chiedo di meglio: moderno rispetto della libertà reciproca. Ci si incrocia per strada accennando un saluto o ignorandosi soavemente, in una muta osservanza di regole minime di convivenza, niente più che un civismo basico: un patto mutuale di non belligeranza, che prevede competenze certe e chiare, che possono essere esclusive e condivise. Sono solo alcuni esempi.
Grazie all'ambiente, riesco a scendere nell’antro dei miei pensieri perfino quando cammino per le vie principali: per me è un eden! Se Dio dovesse parlarmi, potrei sentirlo. Purchè lo faccia lontano dagli incroci a raso.
Uno dei motivi per cui si deve restare svegli mentre si cammina in centro è l'alta densità di biciclette.
Uno dei motivi per cui credo nell’esistenza di dio è che ho letto pensieri sublimi espressi da uomini abietti. L’unica spiegazione che mi sono dato è che uno spirito esiste – almeno uno – e che di tanto in tanto entra in qualcuno di noi e gli fa fare o dire cose molto ispirate. Ma questo non c'entra; ci entrerà più avanti. 
Dicevo del perchè fare il libraio: bene, il modo in cui uno si procura il cibo non deve essere per forza incruento, comodo, o divertente o istruttivo. Però bisogna ammettere che sarebbe facile preferire un lavoro incruento a uno cruento, o uno istruttivo a uno insalubre. Fare il libraio è salutare, stimolante, divertente e fisicamente sostenibile fino a tarda età. Dipende da come si interpreta il ruolo.
Dipende da quanto si può concedere al pubblico, agli "alieni" che si nascondono dietro a ogni cliente. Che possono suscitare reazioni diverse, talvolta da reprimere per evitare guai con la legge.
La società italiana è maleducata: se sopporti questo, puoi vendere libri, cioè fare il libraio.
Si sopporta molto quando in cambio si può disporre di tante idee e di tante storie.
Io vengo sedotto dalle parole e dalle storie - chi sia a scriverle è un dettaglio. E' un sentimento.
In cinquemila anni di scrittura di autori ne sono passati un po’, e quelli che restano sono mosche bianche. Saranno sempre pochi, in proporzione. 
L’idea buona può passare per la mente di chiunque, e penso che sia sbagliato creare personaggi per consentire alle idee di passare, trovare la  "faccia giusta". 
Perché succede, eh! C'è una bella idea, ma per farla sfondare - e ottenerne il maggiore profitto possibile - bisogna abbinare la pubblicità giusta; la pubblicità è un veicolo, e le apparenze, la scatola, la faccia sono pubblicità. Quindi si impacchetta il prodotto con le apparenze adatte a favorirne il "maggior successo possibile".
Nascono gli autori seriali. Un colpo buono e cento a salve. Un libro memorabile e una pletora di volumi vuoti. Il nome di un autore diventa brand. Fine dell'ispirazione e inizio del mercato. 
Se ti ripeti, allora meriti. Se nel barile rimesti, per quanto resti? Molti strizzano quell’idea buona fino all’ultima goccia, e la diluiscono tanto che poi se ne perde il senso. Lo scopo sembra quello di pubblicare il più possibile, perché quella "luce" si deve sfruttare al massimo: cos’è? Hai paura che non tornerà? Che non sarai più all'"altezza"? Ti do un consiglio: "Vola basso e schiva i sassi" (cit. PC)!
Alcuni, invece, hanno scritto tante cose importanti, hanno avuto continuità nella qualità anziché nella quantità, e sfruttare l’ispirazione non era tra le loro preoccupazioni: sono i Bravi, al primo di stadio dell'iter che porta tra i Grandi. Non per forza i Classici, odiati a scuola o sponsorizzati dai cineasti neoclassicisti (un esempio? Polanski con Oliver Twist: oltre 40.000.000 di dollari incassati)
Vecchi e nuovi. Quelli vecchi, va be’, li trovi già a scuola. Quelli nuovi bisogna cercarseli.
Penso che riuscire a trovare la calma aiuti ad abbassare il volume giusto, quello di un Grande, o al limite di un Bravo, e isolare le sirene delle pubblicità, sirene che creano uno stato di agitazione, che fanno male alla quiete.

Anche nell’ambiente dell’editoria ci sono grida, strilli e schiamazzi. 
Faccio il libraio perchè mi piace il silenzio, care infermiere forestiere!
E c'è un'altra ragione, l'ultima della prima puntata della serie "Rispondo alle domande dei lettori":

Cerco l’opera a me contemporanea che sia in grado di diventare un classico: devo intercettarla e diffonderla.
Vorrei, anzi, voglio, che diamine, desidero con tutto me stesso avere il merito di distribuire Quel Libro, quello che non era stato "capito", che ha rischiato di finire nel "dimenticatoio", che sarebbe andato perduto e che invece, col tempo - quando sarò forse solo un vecchio insolente e cattivo - ti diventa un classico. 
La stramaledetto classico.
Ecco.

Chi fa l'infermiere dovrebbe ricevere dei privilegi, dei bonus. 
Sogno o realtà?