lunedì 16 settembre 2013

A chi Silvio e a chi Catilina

- Che post lungo! Non lo leggeranno!
- Dissero una cosa del genere di Bohemian Rhapsody, dei Queen.
- Ah, ho capito. Però, che presunzione!
- Bravo! Questo non è il riassunto.

 Il libro in questione è una raccolta scritta in latino, molto famosa, “Le Catilinarie” di Cicerone.

La parola con cui giochiamo è “banditore”. Che finiate il post o meno, non importa. Sarebbe bello che leggiate il libro, quello sì.

Oggi, in Italia, c’è bisogno di tutto fuorché di divisioni e scontri fratricidi, e per essere chiaro fin dall’inizio dirò che questo post è privo di intenzioni propagandistiche e povero di faziosità. Posso dirlo perché ci ho lavorato ogni giorno da quando ho pubblicato il post “Libraio, perché no?”, vale a dire 18 lunghi giorni. L’ho pensato “grezzo”, l’ho steso con un occhio obiettivo, l’ho riletto per pulire passaggi incerti e parole usate alla leggera, cercando soprattutto le frasi partigiane che mi erano uscite spontaneamente, senza controllo. Non mi dispiace affatto aver limato e corretto il post. Anzi, me ne faccio un punto di merito.
Questo non è un blog politico. La porta è aperta anche ad argomenti politici, se espressi con garbo. Perché? Perché siamo in un paese in cui la politica conta molto ed è argomento comune. La politica entrerà nel blog così come potrebbe entrare in qualsiasi luogo dove due o più persone si confrontano, dalle aule dei tribunali ai mercati rionali.
Benvenuto cittadino libero. Lungi da me militante politico. Chiaro?
Be’, più chiaro di così… Qualche sforzo deve farlo anche chi legge, se no non c’è gusto.


Perché le Catilinarie?

Stavo cercando un libro breve da leggere alla svelta. Mi sono rivolto fiducioso allo “scaffale amico” e questo volumetto era tra i primi tre o quattro presi in considerazione. Ho scelto in fretta, mi pareva interessante: sulla copertina c’è un monile d’oro, forse un bracciale, a forma di vipera.
Dopo poche righe ho iniziato a fare associazioni con l’attualità di tiggì e giornali: lo spunto andava bene per un post. Intravedevo anche delle difficoltà, ma continuai a leggere determinato a trovare altre analogie... Finito! E mi sono detto: “perché no, sarà un post!”.
La lettura mi ha spinto a cercare altre fonti, per approfondire. Ho usato il libro “L’inverno della Repubblica", di Bocchiola e Sartori, e “Catilina” di Fini (1996!).
Perché questa cosa “classica” (vecchia) e lontana da me (ho fatto l’ITIS: zero latino)?
- Perché la vicenda raccontata e il suo contesto possiedono un fascino senza tempo, che mi piace sottoporre a chi vorrà leggere. Caccia alla gloria, delazioni, personaggi di enorme spessore, cupidigia e grandi manovre dietro le quinte: che romanzo!
- Perché questo libro contiene quattro discorsi pubblici (due ai senatori, due al popolo) sull’argomento della congiura. La congiura è intrigante, e senza essere citata è all’ordine del giorno da tempo (troppo tempo, per me). Un piccolo libro con dentro tanti spunti: è un notevole risparmio di tempo.
Com’è noto anche a chi non ha fatto il liceo classico (il libro è oggetto di studio a vari livelli, quindi è diffuso, e questo rappresenta un valido motivo per scegliere di parlarne pubblicamente), la congiura denunciata da Cicerone ha dei contorni incerti. Cicerone e Catilina erano concorrenti per un posto da console.
All’epoca non c’erano gli edulcorati confronti tivvù. Un’epoca d’oro, davvero… Catilina voleva prendere il potere illegalmente, con la forza: le elezioni "legali" le aveva perse contro Cicerone.
Cicerone, console, sostiene che a Roma vi sia un covo di vipere pronto ad esplodere. Qualcuno vuole sovvertire l’ordine della Repubblica, seminare il caos e raccogliere il potere assoluto. Un gruppo di uomini – perfino alcuni senatori – sta tramando la distruzione della città. Catilina è il capo. 
Lutto e disordine sono alle porte. Bisogna intervenire presto. Cicerone articola in alcuni discorsi il suo progetto: i congiurati se ne devono andare dalla città, da soli. Già su questo punto mi vengono dei dubbi. E sono venuti pure a Massimo Fini. E chissà a quanti.
Da quel che si sa, a Roma in quell’epoca c’era già un bel po’ di casino - ai limiti della guerra civile (scoppierà pochi anni dopo), e se un console temeva la sovversione, faceva prima a mandare qualche sicario a scannare i congiurati, o almeno a minacciarli seriamente.
Invece no: solo “oratio”. Molto nobile. E sospetto.
Alla domanda “siamo sicuri che la congiura fosse quella che ci viene presentata dalle orazioni di Cicerone?”, la risposta è un semplice no, non siamo sicuri. Cicerone era parte in causa.


It’s History, Baby!

Non dico che abbia inventato, dico che il buon Marco Tullio “Cicero”, magistrato dalla carriera folgorante (nato Cavaliere a Sora, ma da considerare come un cosiddetto “uomo nuovo”, fuori dalla casta senatoriale) e tanto auto-celebrativo da sembrare ridicolo, abbia ricamato un po’ sui fatti; si è destreggiato bene tra mostri sacri e pedine deboli di uno scacchiere complesso come il Senato di Roma, dove tutto era intrallazzo e compromesso privato. All’epoca, ottenne di essere chiamato “padre della patria”: non male per uno “di fuori”. Inventato no, dunque - movimenti oscuri ve ne furono ed è provato - , ma manipolato sì.
E’ una critica? Io penso che nel suo caso i mezzi furono all’altezza del fine: era un conservatore che vedeva minacciata la Repubblica, e per salvarla fece quel che potè. Aveva un enorme talento, e lo usò. Poi la sua rete cedette, venne assassinato e la Repubblica finì lo stesso. Ma scrisse, e tanto.
La Storia fece il suo corso. La ricerca storica pure. I testi di Cicerone sono utili sia alla Letteratura che alla ricerca storica. La ricerca non ha messo ancora la parola fine sulla Congiura (o le congiure) di Catilina. Nel corso del tempo, il “folle, scellerato” Catilina ha però guadagnato qualche punto.
Forse Cicero “scelse” Lucio Sergio Catilina come capro espiatorio; perché, seguendo la sua ricostruzione, un certo Pompeo e perfino un tal Cesare, due tipetti piuttosto influenti sulle sorti di Roma, passano da fessacchiotti strumentalizzati da Catilina, e così non può essere, dai! Potevano essere coinvolti fino al collo. Il primo valse a Roma la porzione maggiore dei possedimenti in Asia Minore e il secondo, be’, il secondo è Cesare!
Entrambi godettero di poteri senza limiti nello Stato più forte dell’epoca. Eppure questi due imberbi arrampicatori sociali sarebbero facili vittime del fascino del primo Catilina?
Cicero, a chi la racconti?
Pompeo non temeva nessuno, era er più; Cesare “sapeva” di doverlo diventare da lì a poco.
Due carichi da novanta congiurati sotto la guida di Catilina? Non che Lucio Catilina fosse un uomo qualunque (di stirpe nobile, amato dal popolo, dedito al vizio, fascinoso e “temerario”, secondo descrizioni coeve): aveva un curriculum interessante. Però è difficile crederlo capace di avviluppare nella sua trama tanto Cesare - che Cicerone tira in ballo, per ghermirlo, nella Quarta Orazione – quanto Pompeo, che l’onnisciente Marco Tullio riesce perfino a non nominare mai. 
Pompeo tornerà da oriente con l’aura di un semidio.
Cesare sfiderà gli dei stessi.
Catilina morirà a breve.
Ah! Destino crudele! A Cicerone, l’arte oratoria valse dunque qualche soddisfazione.
Come dice Antonio Conte: “Chi vince scrive la storia”. Come? Non l’ha detto Conte? Allora cito la citazione. Catilina ha sbagliato a non scrivere. Forse non era capace.
La Prima Catilinaria basta a persuadere il diretto interessato a lasciare la città. Il lettore viene convinto della sua colpevolezza. Troppo presto: Cicerone, da buon politico, comincia a lodarsi, a dire che gli dei sono con lui, fino al termine. Fino a che non ti viene in mente “l’unto del Signore”.
Mi piacerebbe sfruttare questo incensato quartetto di discorsi, passato alla storia come modello di oratoria e studiato tanto in Italia quanto all’estero, per sottolineare due cose ancora attuali in esso contenute: i tentativi di battere un nemico condizionando la giuria attraverso discorsi pubblici vanno a segno senza sporcarsi le mani se si è più che abili manipolatori, se si è magici. Poi: cambiano gli interpreti, ma i ruoli nelle umane vicende possono rimanere simili a distanza di millenni. La storia a cicli come la immaginava Isaac Asimov.
Ogni giorno si parla della vicenda di Silvio B (per merito di media molto motivati) come ventuno secoli fa si parlava della vicenda di Catilina (per merito di un Cicerone altrettanto motivato), e il luogo di queste due vicende è il medesimo: il Senato di Roma.
Ah-ah, ironia della sorte: al popolo romano del I sec. a.C. toccarono le trame di una manciata di uomini dalle incredibili capacità, Cicerone self-made man, Pompeo deus ex machina e Cesare enfant prodige, e a noi, italici del 2000, tocca "La CASTA"… la proporzione c’è tutta. 
Che vuoi farci? It’s History, Baby!


Un riassunto e un dubbio

Nel 63 a.C., Marco Tullio Cicerone viene eletto console. Il suo atto politico principale è far respingere la riforma agraria. Tale riforma avrebbe ridiviso le terre tra i cittadini liberi e gli amici dei propugnatori della riforma stessa, rimaneggiando i possedimenti dei grandi proprietari terrieri. Si trattava di una misura popolare, favorevole cioè al popolo e sfavorevole ai grandi gruppi di potere. Catilina era tra i favorevoli a questa riforma; era anch’egli un popolare, sebbene di nobili origini. I suoi nemici sostenevano che non fosse sincero, che speculasse sugli agricoltori per arrivare al potere. Anche Cesare faceva parte del partito popolare, ma Cicerone non lo ha mai attaccato frontalmente, anzi lo adulava. Se c’era da votare una proposta del popolare Cesare, Cicerone la avversava accanitamente coprendo al contempo Cesare di complimenti (Catilinam Quarta, IV.7). In quel momento a Roma le cose vanno peggio che nelle province: mentre Pompeo sbanca il Vicino Oriente e il Ponto, dentro le mura le lotte di potere fanno salire la tensione.
Il punto è che l’allargarsi dei territori controllati dalla capitale manda in tilt il sistema-repubblica. 
Immaginate un vasto quadro: l’Europa e l’Asia Minore. Vedete il Senato fratricida in Italia e una macchia d’olio con l’insegna romana che si espande a est (Pompeo e i suoi).
Ora fate zoom sull’Italia: gli agricoltori liberi erano la classe media del tempo, e tenevano in piedi la baracca perché producevano cibo e prestavano le braccia ad ogni evenienza. Sono indipendenti, organizzati in fattorie autonome. I ricchi di città, però, ampliano i propri appezzamenti. Sempre di più. Fanno “cartello” tra loro. Fagocitano le piccole fattorie. Allo stesso tempo le campagne militari, per forza di cose sempre più lontane, richiedono uomini. Le campagne italiane si svuotano. Gli eserciti si riempiono. L’equilibrio cambia: le derrate alimentari vengono da fuori.
Persone come Pompeo avevano il merito di acquisire nuovi mercati.
Gli eserciti crescono al punto che ogni generale ha il proprio: prevalgono gli eserciti privati, premessa alla guerra civile. Tra questi, quello di Pompeo è il più forte. Pompeo, lontano, ha poteri infiniti; la sua influenza è la maggiore, e la più temuta. Manda da mangiare ai romani. Roma dipende da lui. Quando torna, la congiura è acqua passata, ma ogni mossa, in patria, era fatta tenendo in considerazione lui, er più. La Repubblica, al suo ritorno, è meno robusta. Le fazioni si scontrano civilmente in pubblico e si scannano in privato. Ognuno pensa solo a sé, e la gloria di "Roma faro delle genti", è solo un pretesto dietro il quale celare gli egoismi più miopi. L’oligarchia si è liberata dai retaggi della rappresentanza. Il governo non è più res-publica, ma res-privata (perfino gli eserciti lo sono). Anzi, la Repubblica sta implodendo! Non regge le tensioni di una “Roma delle familie” dal metabolismo accelerato, che sta per trasformarsi, con dolore, nella “Roma di Cesare”. Costumi dissoluti imperversano e l’onore non è che un’attenuante per crimini orrendi.
In quello scenario, solo un ipocrita poteva biasimare chi frequenta attori, puttane e scommettitori. Il frequentatore sarebbe Catilina: pericolo pubblico numero uno.
In tutto ciò è il dissoluto Catilina a pensare di prendersi tutta Roma. "Ma che davero?"
Cicerone ne è certo, e lo sbugiarda in Senato, lui presente. Nell’opera, parla solo Cicero: chissà nella realtà? Come avrà reagito Lucio Sergio a un’accusa pubblica come quella.
Sarebbe stata una scena fantastica.
Sogno. E mi sorge il dubbio «Cicerone, non è che per caso volevi salvarti da un pericolo, reale, proveniente da gente molto più potente di Catilina? Non è che, per caso, hai attaccato Catilina per non dover affrontare nemici imbattibili?» 
Invece: merda su Catilina e incenso sulle opere di Cicerone, che etterne restano. Che bravo Cicero!
Gli direi questo: Be’, se è così, sappi che hai reso il “capo dei congiurati” famoso almeno quanto te, e forse gli hai guadagnato pure qualche “fan” in più.
Il console raggiunse il suo obiettivo. Il senatore decadde, e se ne andò con le pive e il gladio nel sacco. A Fiesole, dove lo attendeva un manipolo di fedeli. Morì in mischia, a Pistoia, contro un esercito di Romani. Sul campo di battaglia, i vincitori riconobbero molti loro amici. O almeno, così si dice.


Banditore e Re bandito

La retorica è l’arma in più di Cicerone. Avvocato, filosofo, letterato, Cicerone è diventato un simbolo popolare che resiste ai secoli: si dice ancora “fare da Cicerone” quando si portano i turisti in giro per la città eterna e gli si spiegano luoghi, fatti e storia. Portare in giro o prendere in giro...
Marco Tullio aveva un talento immenso, impareggiabile. E aveva le idee chiare. Era un conservatore che veniva dalla gavetta, e intendeva difendere lo status quo che gli aveva consentito di ascendere a cariche impensabili per la casta cavalleresca di cui era epigono. Avrebbe fatto di tutto, certo, ma preferiva non sporcarsi le mani, né la reputazione. Tanto più che c’era quel dono, nella tasca della sua tunica, quel dono formidabile che il tempo non ha potuto offuscare.
L’eloquenza, da usare senza risparmiare.
A me Cicerone sta antipatico.
Però… che genio!
Sì, dai: riconosciamo le qualità di chi non ci piace. Cosa giusta, onesta e utile. Ci servirà a capire la situazione e a fare scelte migliori; riconoscerne i pregi non sarà forse utile a prepararci al confronto? Era capace di falsità, doppio gioco e corruzione. Ottenne informazioni su Catilina da una donna: un altro classico dei romanzi di genere! Cicerone ha difeso molti clienti in posizione scomoda. Era un grande avvocato. Il migliore avvocato. Sapeva adattare i suoi messaggi all’uditorio che aveva davanti. Parlava al Senato e alla plebe. Ai liberti e agli ottimati. Sempre, senza interruzioni, si è giocato le sue carte, e devo ammettere che, in fondo, era un vincente. Vanitoso, incapace di vincere due volte vincendo sé stesso col riserbo, e anzi reinvestendo la vittoria per vincere ancora: sempre mortificare l’avversario! Sempre avere l’ultima parola!
Non mi piace perché è eccessivo: troppo auto-celebrativo, troppo “furbetto” nel tirare in ballo gli dei al termine delle orazioni, proprio alla fine.La fine resta impressa. Eccessivo ma geniale, ancora, nel ricorso a una PNL ante litteram (Terza, V.13).
Perfino Console grazie a trame e chiacchiere, nella Roma dei gladi e delle coppe: per me, scusate il candore, è troppo. Capisco Questore, ma CONSOLE!
Bandisce i concorsi su come condannare Catilina e i suoi amici. Non istruisce però – piccolo dettaglio – il processo. Ops! Ti costerà cara, Marco Tu’.
Bandisce - accezione differente di un verbo che egli padroneggia senza tentennamenti - un senatore romano dalla città: “Non ho il potere di mandarti in esilio – dice a Catilina – ma ti consiglio di auto-esiliari”.
Botte piena e moglie ubriaca: anche questo è un eccesso!
Un venditore di razza. Che si è scritto da solo la propria biografia e la propria bibliografia.
Self-made man fino al midollo, con molte zone d’ombra.
Il lignaggio era l’arma di Catilina. Della famiglia dei Sergii, era di stirpe regale, dunque, e ad ogni buon conto aveva sposato la figlia di un console. All’epoca delle orazioni era uno splendido quarantenne; conobbe Cicerone e Pompeo quando aveva ventun anni, durante una campagna militare. Era stato un giovane guerriero. Ebbe una carriera “politica”, fino a governare alcune province. Faceva gli interessi dell’azienda, cioè di Roma, ma alimentava per sé ambizioni ben superiori a quelle che un iter “togato” poteva consentire. Fedina penale opaca, molto consumata.
Un uomo di talento, dalle grandi speranze. Ma dal destino infausto: un re bandito dal regno, non si sa bene perché. Gli viene concesso di vivere perché era nobile? La vita non valeva molto a Roma!
Si tagliavano gole per molto meno.


Analogie, differenze.

A Palazzo Madama, a Roma, ci sono tante opere d’arte. Gli italiani non possono vederle, eppure appartengono a loro, perché il Senato, che sta lì, a Palazzo Madama, è degli italiani. Una di queste opere è un quadro di Cesare Maccari. C’è una doppia schiera di sedie di legno, in cerchio; e c’è un gruppetto di vecchi signori in tunica bianca, fanno capannello sullo sfondo; seduto in primo piano c’è un vigoroso uomo bruno, anche lui in abbondante tunica bianca.
E’ un senatore. Il senatore Catilina.
In questi giorni a Palazzo Madama si discute della decadenza di un senatore, il senator Silvio.
Stesso posto, 2075 anni dopo. Duemilasettantacinque.
Ma Silvio non è Catilina. Niente omicidi, solo... frode fiscale. Un Cicerone oggi userebbe alcuni elementi portati in aula dal Cicerone originale: quelli sulle frequentazioni del senatore da espellere. Svergognati, depravati (Seconda, X.23), gladiatori. Queste le compagnie dell’antico romano e, per analogia ma non per sovrapposizione, del moderno italiano: valgono lo spregio del popolo.
Solo che, guarda un po’, la gente comune ama Catilina. Che giocava coi fanti, per Giunone!
Uno su un milione, nella Roma dei fasti, sarebbe riuscito a scalare le gerarchie dalla provincia al foro senza sporcarsi le mani. Un uomo nuovo, che esce dall’anonimato della classe media e svetta sugli altri grazie a doti rare, tra le quali l’adulazione e la retorica. Un uomo dotato di talento straordinario: il talento di ammaliare la platea con le parole. Un uomo bramoso di potere, che vuole avere sempre l’ultima parola. Un retore capace di convincere gli astanti con argomenti apparentemente inattaccabili. C’è sempre un amico potente a sostenerlo. Sceso in campo nel corso honorum, scrisse la propria lettera di raccomandazione e la diede a suo fratello, anche lui operante nello stesso settore, perché la leggesse pubblicamente come se fosse propria. Un po’ sfacciato. Alleato degli aristocratici.
Faceva leva sui sentimenti di chi lo ascoltava, per convincerlo a seguirlo e a sostenerlo. Giocava coi santi. Divenne console a Roma. Si chiamava Marco Tullio Cicerone.
Ma Silvio non è Cicerone. Un avversario dell’aristocrazia, uno del popolo, contro Silvio oggi userebbe argomenti che i nemici di Cicerone usarono allora: fino ad ora è sfuggito dai processi grazie all’abuso di potere, si ritiri dalla vita pubblica se vuole evitare la persecuzione.
Cicerone, in declino, rifiutò di approvare la riforma agraria voluta Pompeo e da Cesare, in ascesa. Fu coerente, e lasciò Roma, esiliato. Aveva una splendida villa, a Brindisi.
Decadde dal potere per una legge retroattiva. All’epoca erano Severi, altro che Severino.
Roma Caput Mundi concentra in sé la maggior parte della ricchezza, mentre le masse sono alla fame, come capita anche oggi: tanta ricchezza in mano a pochi.
L’oligarchica casta politica se ne frega del popolo. Il governo è affare privato.
La civiltà è in declino, il malcostume imperversa.
Catilina faceva il demagogo col popolo.
Cicerone era un demagogo a tutto tondo, dal Senato alla suburra.
Altre analogie? Altre differenze? Se siete arrivati in fondo, trovatene una. 
Qualche sforzo deve farlo anche chi legge, se no non c’è gusto.

Ma davvero l’Italia è nel G8?
P.S.: Tutti i libri usati per questo post sono di… Silvio, o di sua Figlia. 


2 commenti:

  1. Sai che analogia ho trovato io? Come ti ho già detto a voce...sono passati più di duemila anni, e che cosa è cambiato? Che cosa abbiamo imparato dalla nostra storia patria? Non molto, mi pare di capire...

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    1. Le traduzioni da Cicerone e Sallustio riportano spesso "attentato allo Stato", pericolo per la Repubblica": demagogia A.C.!
      Condivido la tua analogia: proprio quello che bisogna sottolineare. C'è gente che lo grida, e la capisco. Gente che esplode petardi, e ... e va be', so' ragazzi. Il limite è la violenza, perché la violenza è inciviltà, e allora siamo pari a chi ci sta tradendo. La diffamazione a mezzo stampa è un arma antica, questo in Italia oggi lo sanno tutti e tutti lo mettono in pratica contro gli avversari. Il fatto è che questa strategia è premiante dal momento in cui si decide di fottere la democrazia: acquisire il favore delle masse, farsene paladino e scagliare il malcontento contro gli avversari. Mezzi di informazione usati per plasmare coscienze. Questa si che è una CONGIURA!

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