martedì 17 dicembre 2013

Gli unici che abbassano i prezzi: COME FARANNO?

Novità editoriale papale-popolare

"Evangelii gaudium" nuova edizione, cosa cambia? Poco: è già uscito in edizione economica. Dai 5 euro e 90 del cartonato incollato della San Paolo ai 4 del brossurato all'olandese di EDB - ovvero le vecchie care Edizioni Dehoniane. Adesso il libro costa quanto un biglietto d'auguri con le scritte a rilievo. Se qualcuno aggrotta le sopracciglia nel leggere "brossurato all'olandese" non mi stupisco: si tratta di un "tecnicismo". La olandese è la copertina con le alette ripiegate all'interno della seconda e della terza pagina di copertina; è un cartoncino resistente che si incolla direttamente al volume. Il libro così fatto è flessibile ma più forte del comune paperback.
Dal punto di vista dei contenuti, la differenza sta nell'assenza di una introduzione. L'edizone EDB è tutto Papa e niente Semeraro, perciò la prima parola del libro è "gioia", alla faccia di tutti gli scrittori che hanno problemi con l'incipit.
Aggiungo anche una nota di sollievo circa il dubbio del post precedente: si può associare il termine "socialista" al sommo pontefice di Roma senza essere fulminati dall'ira divina? Dato che non si offende se degli ultraconservatori statunitensi gli danno del marxista, magari non gli dispiace neanche se io lo trovo un po' socialista. Non mi aspetto anatemi. D'altra parte, mica gli ho dato del comunista...
Cari tea-partysti, non crucciatevi, Francesco era e resta un vero e proprio Pope, come dite voi, "pop"!

martedì 10 dicembre 2013

Correntizio, Orizzonte, Unità e ... Facciatosta

Non siamo a scuola e le giustificazioni sembrano fuori luogo, ma per dimostrare - quantomeno a me stesso - che il blog è una cosa seria, penso di poter scrivere due parole a spiegare la mia prolungata assenza.
Nel mese passato ho percorso in equilibrio precario una fragile fune tesa da un punto A a un punto B, dove il punto A è la vita e l'insieme delle cose che ruotano intorno ad essa, e il punto B è la morte e i suoi malfamati dintorni. E' stato un viaggio andata e ritorno, e io ero il viaggiatore, non mi trovavo personalmente né in A né in B. Lo dico per quelli che stanno già pensando a una mia resurrezione. Purtroppo non è risorto nessuno.
Questo avanti e indietro ha assorbito ogni cosa di me, tutto qui.

Il post segue e attraversa alcuni avvenimenti pubblici di grande risalto: la morte di Mandela e la nascita del nuovo PD, la politica italienska e la crisi economica, stuff like these. I telegiornali generalisti parlano con eccessiva enfasi di questi due temi e della Rivolta dei Forconi. C'è un movimento popolare degno di interesse anche in Ucraina, però (dico Ucraina perchè lì è roba fresca, anzi fredda, ma c'è da pescare anche altrove). C'è un natale dei consumi che si avvicina: verrà accolto da consumatori ampiamente impreparati a fare festa. Di questi due ultimi temi credo si parli poco, troppo poco, e male, troppo male. Dis-tratti.
Ci sono ancora dei militari in attesa di giudizio in India - e rischiano grosso - e ci sono degli attivisti di Greenpeace con delle grosse grane pendenti nei confronti del governo russo.
Penso che parlarne potrebbe cambiare qualcosa. L'opinione pubblica può fare qualcosa, specie se uno Stato Nazionale - ed è, ahime, il caso dell'Itahia - è ai suoi minimi storici come peso internazionale. Invece si parla di crisi economica, una questione che non muterà certo grazie al chiacchiericcio televisivo.
Il fatto è che la libreria mi offre ogni giorno la possibilità di vedere con una certa calma temi oscurati o appannati da altri media (perchè la LIBRERIA E' UN MEDIUM), e questo mi fa riflettere.
Come si fa causa al Comune, che mi chiede l'IMU anche se lo Stato non me la chiede più? Come si fa una class action efficace? Nel suo libro, Vespa non lo spiega. Troppe pagine vergate nei salotti buoni.
Perciò oggi parlerò di libri "sfigati"...

Un modo chiaro per descrivere il significato di "sfigato"? Lo sfigato è uno che non viene invitato alle feste.
Allo stesso modo, i libri intorno ai quali faccio un ragionamento oggi non partecipano alla festa delle "vendite natalizie". Aggiungo però che se dovessi partire per un'isola deserta, o meglio per Marte NON porterei nessuno di questi libri. Che sono:

1 EVANGELII GAUDIUM, Bergoglio, edit. SAN PAOLO, 300 pp., € 5.90
2 ISLANDA CHIAMA ITALIA, Degl'innocenti, Arianna Editrice, 200 pp., € 11.90
3 I TRE GIORNI che sconvolsero il PD, Zampa, Imprimatur editore, 150 pp., € 12

D'ora in vanti non userò più il maiuscolo a sproposito. Questo è il mio "Impegno 2014" ... ah ah (vi do due giorni per capirla).

Voi non potete immaginare quanti legami ci siano tra questi tre libri sfigati. Voglio dire: tra legami forti ed altri flebili e arditi, ce ne sono davvero un'infinità. Questi tre volumi per me sono un vero trittico. Credo proprio che gli autori abbiano scritto a sei mani, otto se contiamo lo Spirito Santo.
Ad esempio l'autore del libro 1 viene, se non lo sapete, da una lunga gavetta in Argentina, che è l'unico grande paese (40 milioni di abitanti) ad avere in comune col l'Islanda (320 mila, libro 2) la capacità di uscire da una crisi economica profonda e di enorme gravità. L'altro è l'Ecuador, mi pare, ma è più piccolo.
Tutti i testi sono usciti quest'anno e tutti appartengono alla saggistica economica. Tutti e tre svelano l'apparenza e vanno dritti al punto senza finzioni: il primo è 'na spece de enciclica che - finalmente - contiene le parole recenti dell'autore, Papa Francesco, dopo innumerevoli pubblicazioni su di lui in cui ci sono scritte parole non sue; il secondo descrive come fare il "colpo del secolo", ovvero come cancellare i propri debiti e vivere felici e contenti - il volumetto inoltre colma una distanza geografica discreta ma che si tende a esagerare; il terzo riporta documenti e intere conversazioni dei reali interpreti di un disastro politico tra i più imbarazzanti della storia del nostro paese (18 - 20 aprile 2013). Tre libri impossibili da riassumere: come avete letto sono piuttosto brevi. Il più lungo è anche il più economico...
Altri legami: 1 e 2 indicano che nella Chiesa Cattolica e in Islanda (badate, non si può chiamarla Repubblica Parlamentare d'Islanda) c'è stata una svolta, il libro 3 indica che da noi, nella Repubblica Italiana, una svolta non c'è stata. Il fatto che non ci sarà nemmeno in futuro è una mia opinione, mentre al riguardo la Zampa, autrice, non si sbilancia.
"I flussi di denaro non esistono": è una delle conclusioni che illuminano le pagine - a tratti tecniche - di Degl'innocenti. Secondo lui gli islandesi hanno compreso il concetto "i soldi servono, ma non governano".
Vediamo al volo come ci arriva: l'Islanda aveva un debito di alcuni milioni di dollari con le banche, ma la maggioranza della popolazione ha deciso che la colpa è delle banche. Il debito lo pagheranno le banche. Chiaro? Per me è chiarissimo. Vi invito a esprimere dubbi. E' utile specificare: non so se l'Italia può fare quello che ha fatto l'Islanda. So che ci sono delle differenze tra Italia e Islanda. In Islanda fa più freddo e non ci sono rotaie. I treni italiani sono quindi migliori dei treni islandesi ...
Gli islandesi sono usciti a modo loro dal neoliberismo. Lo hanno fatto senza scomporsi, come un serpente che lascia la vecchia pelle. Loro avevano avuto bisogno del mercato. Lo sono andati a cercare, lo hanno trovato e se lo sono tenuto in casa. Fino al 2008 ("la nazione più felice del mondo", si diceva allora). Poi si sono sentiti traditi dal mercato. E gliene hanno cantate quattro.
Ricordate Naomi Klein e il suo libro-manifesto "No logo"? Per lei il neoliberismo è una specie di tessuto speciale molto intricato, fatto di multinazionali che si legano al potere che si lega alle banche che si legano alle multinazionali. Imbrigliando (imbrogliando? ho detto imbrigliando?) gli altri. Da questo intreccio gli islandesi - cioè "gli altri", gli uomini comuni - si sono divincolati. Si sono stretti insieme e hanno intonato in coro "Ciao ciao debito"... Questo iter, durato pochi anni, mi ha condotto dritto dritto alla protesta dei forconi-furgoni (il movimento è partito dal settore trasporti). In questi giorni, in qualunque città italica, a chiunque può capitare di incontrare un uomo vestito col tricolore che distribuisce volantini. Sul volantino troverà scritto "basta tasse", che è la traduzione italiana di "basta debiti". Il motivo per leggere "Islanda chiama Italia" è la speranza. Stare uniti produce forza.
Il PD ne è un esempio lampante. Non certo per i fatti attuali, ma per quelli che vanno da un anno fa ad aprile 2013.
Essere disuniti, indebolisce. Partiti politici deboli non riescono a fare nulla. Il partito che ha preso più voti non è riuscito a fare nulla. Troppo tempo è stato sprecato, ancora nessuno si è presentato a pagare il conto. La parola più brutta di questo post è correntizio. Il PD è correntizio. Il libro della Zampa lo dimostra, anzi lo denuncia, e di questo bisogna darle atto, dato che lei nel PD c'è dentro fino al collo.
Denuncia sé stessa. Credo si tratti di un atto consapevole.
Ricordate le ultime elezioni politiche? Un suicidio del PD, uno dei migliori suicidi della Storia d'Italia! Ricordate l'elezione del Presidente della Repubblica e la faccenda dei "franchi tiratori"? Implosione del PD - la cui potenza d'urto fu amplificata dal maldestro tentativo di incolpare altri partiti. In "I tre giorni" trovate davvero una gran mole di dettagli sulla questione. Cronaca di fatti decisivi vista da dentro, che ho trovato credibile. Se vi è antipatico Prodi, però, non lo leggete, per favore.
La Zampa è un'allieva del Professore, anzi: una devota. Gli riconosco una bella facciatosta: denunciare il correntismo e dichiararsi prodiana.
Ma io vorrei parlare solo di parole e di libri. Il correntismo è una parola che merita attenzione, perchè è attuale, è di moda e fa... tendenza. Nei partiti, nei sindacati e nelle aziende il correntismo è un dato di fatto. Perciò va da sè che lo sia anche nella Chiesa Romana (ci sono obiezioni?). Il correntismo divide il corpus dispensando l'appetitosa illusione di potenziare singole parti del totale. Funziona molto bene dove c'è spazio per i complotti, le sedizioni e le lotte di potere. Restringe la visione, dal generale si passa al particolare, rinnovando il duello tra Machiavelli e Guicciardini. Sono passati 600 anni, poco è mutato. Perchè l'uomo, se cambia, cambia poco col metodo graduale e tanto per scatti (basti pensare ai nostri amici X-men). Il correntismo è un fatto umano, come il peccato. Peccato!
A proposito di peccato e di correnti, è ora di motivare la lettura di "Evangelii gaudium": è bello da leggere. Sapete come è fatto? E' composto da tanti brani, brevi e meno brevi, stesi con un linguaggio perfettamente comprensibile. I termini più aspri sono "esortazione" e "apostolica" e li trovate in copertina. Per convincersi che si tratta di una "cosa di chiesa" bisogna proprio leggere l'introduzione, che non ha scritto Bergoglio; è di Semeraro, che coadiuva il papa nella riforma della Curia. Stando agli annunci, si vogliono serrare le fila,  rafforzare il contatto tra fedeli e istituzioni (ecclesiastiche). Gente, pare davvero che la Chiesa Romana cambierà. Ho preferito questo libro tra decine legati alla figura del papa, che ho comunque dovuto vagliare in libreria, perchè le vecchine dopo il terzo libro "del papa" non ci capivano più nulla. Avevano ragione: nelle librerie c'è troppa roba sull'argomento. Troppo, pure le figurine! L'eccesso è editoriale, chiaro? Il sospetto cresce: monetizzare la popolarità di Francesco. Però questa "enciclica mascherata" è bella, ragazzi; ha un alto tasso di quel linguaggio della "prossimità" che sta facendo la fortuna di questo pontefice; è chiara; è emozionante. Il libro mostra un pensiero dall'orizzonte ampio.
Si può dire "tardo-socialista" nello stesso testo in cui si parla del papa? Allora sia: ci trovo delle tracce di socialismo - ve le andate a cercare (solo un indizio: pag 237 "il tutto è superiore alla parte", mi ha fatto pensare a Mandela che rinuncia alla liberazione per arrivare al benessere di tutto il Sudafrica).
Saggistica economica due volte: costa poco e parla anche di finanza. Mi piace l'invettiva contro l'economia dell'esclusione ( "il denaro che governa invece di servire", vedi libro 2). Vi anticipo che restano dei paletti mooolto cattolici: tipo una variante soft ma sempre inopportuna di maschilismo e la negazione della patente di progresso civile alla ricerca scientifica, se essa si immischia nell'oscura, eretica materia dell'aborto.
I temi sono davvero tanti, non vado oltre.
Leggere questo papa mi ha fatto bene. Provate! Anche se, certo, è da sfigati... Comunque...
Se a parlare è un uomo che sembra buono, è più facile credere nel perdono... Possiamo peccare!

Ah, se la Chiesa aderisse davvero a questo libro...

 p.s.: la cosiddetta "politica italiana" non esiste, ecco perchè scrivo italienska.


domenica 13 ottobre 2013

Un poeta dei nostri giorni, Erri

Libro: Storia di Irene

Parola: pace

Di un autore come Erri De Luca si dovrebbe parlare solo se si è preparati, perché è troppo famoso per avventurarsi in analisi che susciterebbero risa o rabbia nei suoi lettori affezionati.
Io non sono preparato sull’autore. Di solito penso alle opere, non a chi le scrive (lo vedrei come un condizionamento del marketing).
Ho letto “Aceto, arcobaleno” dieci anni dopo la pubblicazione.
“Il peso della farfalla” quando avevo iniziato la mia nuova vita da tre anni. Non faccio confronti.
Adesso è nelle librerie – e anche, copioso, nella mia – “Storia di Irene”, e l’ho letto subito, perché mi piaceva il titolo. Appena arrivato, l’ho iniziato. Era il giorno prima della pubblicazione, ed è stata un’esperienza molto intima, un esperienza notturna, quasi monastica, fatta di ritorni alla riga prima.

“Storia di Irene” mostra un intento di essenzialità: vi racconto una storia che parla di Irene.
So che l’autore procede spesso secondo delle regole apparenti , e mi dico “ora come ora, mi ci vuole lo stile essenziale di De Luca”. Dico “apparenti” perché non voglio fare il critico letterario: a me paiono regole, ma non so se lo sono o se sono intenzionali. Un mio amico conosce bene De Luca: chiederò a lui (http://www.dabe.it/category/libri). Posso dire che trovo la scrittura pulita, forte e attraversata dall'amore per la lingua.
La mia lettura procedeva per didascalie. E alla fine avevo visto una storia.
Irene è una ragazzina che il narratore, straniero, incontra su un’isola greca.
Il nome del narratore non sta scritto in nessuna riga, ma potrebbe essere Erri – vi dirò poi perché. Irene non parla con le parole. Comunica con il forestiero (mi piace tanto questa parola) attraverso un altro linguaggio.
Non ha genitori, vive da sola sull’isola, ed è isolata, perché porta in grembo una creatura, nonostante la giovane età.
Le poche donne del posto le sono ostili. I pescatori pescano.
Lei preferisce star coi delfini.
I delfini sono insospettabili protagonisti, in questa storia. E' un pregio all’opera.
I delfini sono un simbolo, ma invito ciascun lettore a produrre una interpretazione personale: è una possibilità, e un grande dono che ci fa l’autore; la mano che ce lo porge il dono si chiama "essenzialità"; esso è fatto “togliendo” anziché “dando”, ma per questo vale di più.
Critico letterario o no, proseguite nella lettura, perché vi offro un po’ della bellezza che ho trovato sulle pagine dello scrittore campano. Che è alpinista lo sapevate già? Bene!
Intanto ci sono ragioni a sufficienza per postare le impressioni suscitate da “Storia di Irene”.
Quando l'oggetto del post è un libro, il post è lungo. Da me funziona così.
Qui si parla di libri e di passione per la parola: lo stile di De Luca esalta la parola, la mette su un piedistallo, di legno, basso e disadorno, ma sempre piedistallo… Innumerevoli gli esempi, i miei preferiti li elenco e li grassetto.
Sì! Sarà un elenco.
Caro Autore, ti cito letteralmente, perché, da poeta, usi formule perfette e perché il riassunto sarebbe impossibile. Lo faccio per i lettori, ma anche per te, perciò non mi denunciare, se puoi.
“Nel greco imparato al liceo esisteva la parola eirene, a indicare una pace. Le dettero quel nome dopo la tempesta.
Il mio invece è buffo (Erri, voce del verbo errare: viaggiare – sbagliare, dico io) […] Ora è un nome di fortuna. Accompagna qualche titolo di libro, più da autista che da autore (si da’ un aut-aut, dico io). Faccio il conducente (errante, d.i.) di storie.”

Questo brano spiega come il narratore possa coincidere con l’autore (o autista, come preferite).
“Irene dice che i nomi sono fischi, servono a chiamare. Il suo squilla nel mare, tra i delfini che giocano a chi lo lancia più lontano. In terraferma è spento, nessuno chiama una sordomuta.
Le frasi di Irene non usano la congiunzione e, lettera che disegna un nodo (e in corsivo, dico io). Le lingue che conosco non possono fare senza, per legare.”
Questi passaggi ci fanno incrociare l’attenzione di De Luca per i nomi e per le parole, e mettono i nomi tra i temi dell’opera. Questo libro è sui nomi, sulle chiamate, sui significati. Il tutto perfettamente disciolto in un racconto. Pensi anche alla Poesia, inevitabilmente. Doppio piacere. Guardate che salto dalla pagina fa la congiunzione “e”: esce dal piano della stampa, dove stanno tutte le lettere della storia di Irene, e vi chiede di scriverla in corsivo; sul tavolo, o a bordo pagina, a matita o a penna, ma in corsivo. Tac: è un dannato nodo, la “e”. Semplice, ma nuovo. Ci viene ri-velato un nesso tra significato e segno grafico che, forse, ci era stato seminato nel cervello a sei anni d’età, dalla maestra delle elementari. I legami a Irene non piacciono, perciò non usa congiunzioni. Che legano.

In perfetta sintonia con la maniera asciutta di narrare storie per immagini, De Luca ricorre volentieri al simbolo.
Lo specchio è un simbolo molto famoso. I letterati, che mettono sempre ciò che pensano su un foglio – o in un video – di fronte ai propri occhi, hanno una certa dimestichezza con questo simbolo.
Nemmeno i più grandi hanno evitato il confronto con il simbolo dello specchio.
“Ha un coccio di specchio, lo porta ai delfini, i più giovani saltano intorno per vedersi. Fanno le acrobazie per guardarsi nel vetro di Irene.”
Delfino nello specchio: simbolo nel simbolo. Grazie De Luca! Quante immagini offri! Tante le finestre che si sono aperte quando ho assistito allo stupore di un delfino che per la prima volta vedeva la propria immagine riflessa!
Adesso penso sia giusto aggiungere il dettaglio dell’andare a capo allo stesso modo in cui si va sul libro fisico:
“Le racconto di un labirinto di specchi che
c’era nell’epoca d’infanzia a Napoli. Ci si en-
trava pagando un biglietto, il traguardo era
uscirne, un gioco simile all’alpinismo. […]
Distratto dai troppi me stesso, prendevo zuc-
cate nei vetri, […]
Chiusero il labirinto per troppi incidenti e bernoccoli. Ride di più.
Ricordo dei versi di uno che non amava gli
specchi e scrisse una poesia contro di loro:
oggi, al capo di tanti e di perplessi anni
a vagare sotto varia luna,
mi chiedo quale azzardo di fortuna
mi procurò il timore degli specchi.”

Il buon vecchio Borges, esperto di labirinti, ammette di sentirsi fortunato a temere lo specchio.
De Luca ha letto e tradotto Borges. Un altro che trattava con estremo rispetto le parole; uno scrittore considerato Maestro da alcuni scrittori.
Noi capiamo che Irene è uno specchio per chi sta con lei.
Il narratore sta facendo un percorso, grazie a questa bambina-madre silenziosa ed enigmatica.
E sa che distrarsi con sé stessi è tema diffuso, frequente ostacolo di tanti percorsi.
Quando scambiamo la nostra storia con qualcuno, o con qualcosa, con un quaderno, con un animale, noi scriviamo una parte di quella storia. E scriverla ci aiuta a comprendere, se non altro per tentare di farci comprendere dalla controparte.
Senza parole, Irene “dice” di sé. Richiede un ascolto speciale, che al silenzio somma l’interpretazione. Chi è l’interprete? Chi il prete? Chi il sacerdote di questa liturgia del silenzio?
La nostra coscienza profonda. Il mare che è dentro di noi.
L’immensità molteplice...
eppure racchiusa.
Il posto dove non andiamo quasi mai. Dove troveremmo un “qualcosa” di noi scomodo da tener presente. Ho citato Ligabue? Meglio andare avanti.

“[…] con l’Africa è diverso.
Chi è stato o si è fermato in un suo minimo
cantuccio, può dire di averla abitata.
Parlavo allora il kiswahili, una lingua che ignora il verbo avere,
attenta a distinguere nella grammatica gli esseri umani,
gli animali, le cose.”
Quando sono arrivato a questa pagina, il naufragio di Scicli era già avvenuto. Il viaggio era iniziato una settimana prima: quando avevo il libro tra le mani, di  notte, quelle persone viaggiavano in mare aperto. Che distanza posso mettere tra la mia veglia di lettura e la loro veglia di sopravvivenza? Tutte le gocce di tutti gli oceani, disposte in fila per uno. Dopo aver letto le notizie del naufragio, i tredici morti e tutto il resto, ho ripreso il libro: ho trovato tanti punti di contatto.
In una lingua africana non c’è il verbo avere. Perché mi stupisco?
E’ la verità o la visione di un poeta? (La Poesia insegna che le due cose possono coincidere.) Io leggevo, quelle persone viaggiavano e morivano.
Non dimentico che poi è seguita l’ecatombe, Lampedusa, e la sensibilità dei media. Questa pagina resterà anche quando l’emozione sarà passata.
Forse solo allora sarà utile: a ram-mentare. O a rammendare.
Contesti diversi, ma il rombo delle cronache lampedusane è così insistente che, appena trova un appiglio, la mente cuce pezze tutte diversi, ma utili messe assieme:
la pagina è 47 - a Napoli un numero che parla - “loro” sono i reduci sia della fame che dello storico viaggio di Colombo e dei suoi equi-paggi, perchè loro qui oggi credono ci sia l'America:
“allo sbarco sull’isola d’estate, riepetevo a
bassa voce le sillabe della loro euforia. ‘Tierra.
Da inginocchiarsi per baciarla, dopo nove mesi nelle viscere della città balena”
Qui la città balena altro non è altro che la caravella di Cristoforo Colombo sotto metafora; il viaggio cui si riferisce l’autore è un suo modesto traghetto dal molo Beverello, nel porto di Napoli, e il simbolo che gli torna in mente è evidentemente la ricerca delle Americhe.
Non mi metterei a scrivere forzate associazioni tra il viaggio del 1492 e quello del 2013.
Però sì: le faccio a mente, senza scriverle. La traversata, la speranza, la ricerca di miglior sorte. 
“Mi toglievo le scarpe e inauguravo la stagione scalza.
Il cielo rotondo a semicerchio, che invitava chiunque a essere il centro.”
Scendevi dalla barca, con l’ansia alle stelle. E le stelle in alto. Ti spiaggi, e respiri forte...
Sei vivo, il mondo sotto di te, il cielo sopra. In mezzo, tu. Già che ci sei, ti senti il centro.
Sai di avere poche possibilità, ma te ne basterebbe una sola per sentire di potercela fare. Questo mi viene in mente se penso a una persona che decide di lasciare la sua terra per fame di cibo o di diritti, ma è un’immagine che rappresenta anche me.
Non sono in fuga per la salvezza, ma mi sono figurato –forse è un’allucinazione?- il mio mondo come un mare forza 9, nel quale stento a galleggiare. E mi piacerebbe, davvero, navigare in acque meno pericolose, starmene tranquillo, col poco che mi farei bastare. Un tavolo, un libro, una coppa di gelato o un caffè. In pace. Eirene.
Mi accontento perché posso accontentarmi. Se però non potessi, cercherei anch’io un mezzo di fortuna, e darei tutto ciò che ho per giocare la mia sola chance. Punto interrogativo.
Ma dov’è finita Irene? Eh, non la troverete qui. C’è il libro, se volete.
Qui, invece, trovate un finale di post a base di parole e simboli, ancora.
Qui, il racconto è il secondo del libro (totale = 3), e tratta della salvezza del nonno-soldato di De Luca, seconda guerra mondiale.

Pagina 92: “fu una traversata quieta, di tre ore. Arrivarono a ridosso di Capri e vollero evitare il porto di Marina Grande, dove sarebbero stati fermati e trattenuti. Cercarono un attracco tra gli scogli.
Il mare lento non dava rischio di sbattere contro l’aspro della costa. […] Avevano raggiunto la terra liberata e coincideva per loro con la villeggiatura. Si erano tolti la guerra di dosso.

E festeggiarono, in silenzio, con pacche, abbracci, esultanze mute.”

sabato 5 ottobre 2013

perchè perché PERCHE'

(Nel sogno

... "perché" ha un brutto suono. parola importantissima, va bene! usata spesso, tanto da non farci caso, e detiene ruoli chiave! ma è brutta! cuel "erk" che restituisce scricchiolii, bokkacce, spacchi, e quella e accentata finale che classifica, infingarda, i dialetti imparentati alla lingua italiana. perchè? perché? pérché?eppèrk'? pekké? tutte varianti egualmente in uso. tutti suoni bruttini, tutti sballati...


Al risveglio)

Ieri sera, in libreria, un gruppo di clienti forestiere (ecco una parola bella!) mi ha fatto diverse richieste libresche e mi ha detto tanti "perchè".
Stamattina le vorrei salutare con gratitudine e allegria, nonostante i sogni agitati che ritengo dovuti a loro. O no, chissà. I loro perché mi sono rimasti in testa, ed è stato come portarsi il lavoro a casa. "Perché volevamo un libro piuttosto che un altro."
"Perché dovremmo leggere i libri che ci consiglia?"
"Perché sa', questo genere non fa per me, non mi sta addosso, non mi entra, non è del mio tempo, non mi fa staccare."
"Ma - scusi - lei non è di qui. Perchè vive in questa città?"
e infine, in un crescendo tumultuoso:
"Perché fa il libraio?"
Una domanda molto bella. Importante, si va sul personale. In-effetti, sul personale c'eravamo già arrivati. E in un certo senso esserci arrivati è una valida spiegazione: faccio il libraio anche perchè così instauro dei rapporti con le persone. Anche.
Lì per lì, ho fornito alle interlocutrici la risposta breve, in tutta onestà. Pensavo: glielo dico o no? non è che per caso siamo tutti un po' stanchi? Gioco la romantic version?
Ho risposto perché erano simpatiche, oneste anche loro, e infermiere. Carine.
Erano le 23:00, era tardi, era meglio la versione corta. Fino a quel punto avevo (re)agito bene.
Qui, invece, leggete la versione lunga; una parte: la faccio a puntate (una minaccia?), perchè sicuramente mi verranno ulteriori risposte nel corso del tempo. C'è sempre qualcosa da imparare: dai libri, dai clienti e dalle mie reazioni.
Il libro è un oggetto fantastico.
Mi piace avere a che fare coi libri.
Se lavorare procura da vivere, vorrei che l'oggetto del mio lavorare fossero i libri.
Bisognava solo trovare il posto in cui lavorare coi libri e vivere bene. E l'ho trovato, o meglio ci ho portato la mia vita. Questo posto è una città di centomila persone.
Il contesto ambientale ha avuto la sua importanza: in questa piccola città ho trovato presto quello che cercavo, oltre al lavoro, intendo. 
Ci sono condizioni favorevoli per fare tutto quel che voglio. Evitare di usare l’auto. Fare lunghe passeggiate in silenzio. Mangiare bene. Sconfinare - cioè, passare il confine di stato - in capo a due ore. Persino fare il libraio per campare. In Italia. Pensa!
Al mio arrivo ero guardingo, pessimista. Poi mi sono sciolto, perché ho scoperto che c’erano delle affinità tra me e la gente del posto, non ultima lo splendente orgoglio di godere nel farsi gli affari propri. Amo i cortili chiusi dei vecchi palazzi del centro: lungi dall’evocare una nobiltà, “ascosa al volgo”, che pure li ha costruiti, rappresentano il piacere di coltivare la privacy integrale. Non chiedo di meglio: moderno rispetto della libertà reciproca. Ci si incrocia per strada accennando un saluto o ignorandosi soavemente, in una muta osservanza di regole minime di convivenza, niente più che un civismo basico: un patto mutuale di non belligeranza, che prevede competenze certe e chiare, che possono essere esclusive e condivise. Sono solo alcuni esempi.
Grazie all'ambiente, riesco a scendere nell’antro dei miei pensieri perfino quando cammino per le vie principali: per me è un eden! Se Dio dovesse parlarmi, potrei sentirlo. Purchè lo faccia lontano dagli incroci a raso.
Uno dei motivi per cui si deve restare svegli mentre si cammina in centro è l'alta densità di biciclette.
Uno dei motivi per cui credo nell’esistenza di dio è che ho letto pensieri sublimi espressi da uomini abietti. L’unica spiegazione che mi sono dato è che uno spirito esiste – almeno uno – e che di tanto in tanto entra in qualcuno di noi e gli fa fare o dire cose molto ispirate. Ma questo non c'entra; ci entrerà più avanti. 
Dicevo del perchè fare il libraio: bene, il modo in cui uno si procura il cibo non deve essere per forza incruento, comodo, o divertente o istruttivo. Però bisogna ammettere che sarebbe facile preferire un lavoro incruento a uno cruento, o uno istruttivo a uno insalubre. Fare il libraio è salutare, stimolante, divertente e fisicamente sostenibile fino a tarda età. Dipende da come si interpreta il ruolo.
Dipende da quanto si può concedere al pubblico, agli "alieni" che si nascondono dietro a ogni cliente. Che possono suscitare reazioni diverse, talvolta da reprimere per evitare guai con la legge.
La società italiana è maleducata: se sopporti questo, puoi vendere libri, cioè fare il libraio.
Si sopporta molto quando in cambio si può disporre di tante idee e di tante storie.
Io vengo sedotto dalle parole e dalle storie - chi sia a scriverle è un dettaglio. E' un sentimento.
In cinquemila anni di scrittura di autori ne sono passati un po’, e quelli che restano sono mosche bianche. Saranno sempre pochi, in proporzione. 
L’idea buona può passare per la mente di chiunque, e penso che sia sbagliato creare personaggi per consentire alle idee di passare, trovare la  "faccia giusta". 
Perché succede, eh! C'è una bella idea, ma per farla sfondare - e ottenerne il maggiore profitto possibile - bisogna abbinare la pubblicità giusta; la pubblicità è un veicolo, e le apparenze, la scatola, la faccia sono pubblicità. Quindi si impacchetta il prodotto con le apparenze adatte a favorirne il "maggior successo possibile".
Nascono gli autori seriali. Un colpo buono e cento a salve. Un libro memorabile e una pletora di volumi vuoti. Il nome di un autore diventa brand. Fine dell'ispirazione e inizio del mercato. 
Se ti ripeti, allora meriti. Se nel barile rimesti, per quanto resti? Molti strizzano quell’idea buona fino all’ultima goccia, e la diluiscono tanto che poi se ne perde il senso. Lo scopo sembra quello di pubblicare il più possibile, perché quella "luce" si deve sfruttare al massimo: cos’è? Hai paura che non tornerà? Che non sarai più all'"altezza"? Ti do un consiglio: "Vola basso e schiva i sassi" (cit. PC)!
Alcuni, invece, hanno scritto tante cose importanti, hanno avuto continuità nella qualità anziché nella quantità, e sfruttare l’ispirazione non era tra le loro preoccupazioni: sono i Bravi, al primo di stadio dell'iter che porta tra i Grandi. Non per forza i Classici, odiati a scuola o sponsorizzati dai cineasti neoclassicisti (un esempio? Polanski con Oliver Twist: oltre 40.000.000 di dollari incassati)
Vecchi e nuovi. Quelli vecchi, va be’, li trovi già a scuola. Quelli nuovi bisogna cercarseli.
Penso che riuscire a trovare la calma aiuti ad abbassare il volume giusto, quello di un Grande, o al limite di un Bravo, e isolare le sirene delle pubblicità, sirene che creano uno stato di agitazione, che fanno male alla quiete.

Anche nell’ambiente dell’editoria ci sono grida, strilli e schiamazzi. 
Faccio il libraio perchè mi piace il silenzio, care infermiere forestiere!
E c'è un'altra ragione, l'ultima della prima puntata della serie "Rispondo alle domande dei lettori":

Cerco l’opera a me contemporanea che sia in grado di diventare un classico: devo intercettarla e diffonderla.
Vorrei, anzi, voglio, che diamine, desidero con tutto me stesso avere il merito di distribuire Quel Libro, quello che non era stato "capito", che ha rischiato di finire nel "dimenticatoio", che sarebbe andato perduto e che invece, col tempo - quando sarò forse solo un vecchio insolente e cattivo - ti diventa un classico. 
La stramaledetto classico.
Ecco.

Chi fa l'infermiere dovrebbe ricevere dei privilegi, dei bonus. 
Sogno o realtà?

lunedì 23 settembre 2013

Una trivella scava dentro Roma: è "Suburra".

"Suburra", ieri, oggi e... sempre?

Il libro è firmato da Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo. Il primoè romano, il secondo è tarantino. Il titolo SUBURRA e la copertina scelta dai grafici Einaudi ci portano a Roma, senza ombra di dubbio.
Sappiamo inoltre che teniamo in mano un romanzo giallo, e cerchiamo di capire se è vero che c’è un filo rosso tra le migliori opere precedenti degli autori (ACAB per il primo, Romanzo criminale per il secondo). Ma c’è un motivo più forte, una sorpresa, che trattiene dal riporre il volume dove l’avevamo trovato, cioè tra l’ultimo Lucarelli e la piletta di “L’undicesima ora” (autori due, anche qui: la Maxine Paetro e quel che resta di James Patterson), oggi in libreria.
In terza di copertina c’è la promessa che in Suburra troveremo determinati personaggi, specifici tipi sociali. C’è un elenco dei protagonisti divisi in gruppi! Non l’avevo mai visto prima. Lo trovo intrigante: bella trovata, sia di marketing che di gusto letterario. È un romanzo di genere, quindi. Che genere? Be’, per me genere pasoliniano.
Se mai pubblicherò una storia, la manderò ai due autori così che possano rendermi pan per focaccia.
Vorrei tanto che venisse letto da chi sente un legame con Roma. Roma di Suburra respira come Barcellona sotto la penna di Carlos Ruiz Zafon, al punto da sentirne il fiato quando si chiudono gli occhi: ruggine, olii di scarico, prati di periferia, salsedine, combustione, ponentino, er vino dei Castelli.
La sotto-città corrisponde al nuovo anello della città eterna, fuori dal Grande Raccordo, oggi meglio noto come Sacro GRA. E in quell'anello ce so' nato, a Roma, ieri. O l'altro ieri.

Prima vediamo cosa non va, perché il romanzo mi ha fatto bene, e mi è piaciuto.
La sua attrattiva iniziale (gli elenchi dei personaggi in seconda e terza di copertina) si rivela un arma a doppio taglio.
Il mio problema è: non finisce mai di cominciare: fino a pagina 130 (su 480 totali) è un susseguirsi di ingressi in scena. Troppo per i miei gusti. “Quando cominciamo a raccogliere?” ci si chiede quando la sete di trama si fa sentire. Però non discuto i diritti di un autore di ordire e sospendere, tirare e focalizzare. Voglio solo dire che c’è tanta lista e poca trama per un intervallo lungo; un intervallo posto all’inizio, che allontana la preda (il corpo della storia) dalla famelica fiera (il lettore).

Sono troppo pignolo, però c’è un passaggio che mi preme, ed è meglio se lo pubblico così altri potranno sfogarsi, come faccio io. Sfogatevi pure contro di me, davvero: sarà bello!
 p.54: un luogo comune secondo cui la sinistra odia le prostitute? Non esiste! Tipo, gli autori intendono forse farci credere che una ragazza, prostituta per scelta (“di rango”), possa ritenere che quelli di sinistra siano “membri” di un bacino d’utenza ostico? Cioè quelli di sinistra non sfruttano la prostituzione? So’ diversi da altri in questo senso? Non credo proprio! Bisogna fare chiarezza: non spetta all’autore, e io lo faccio solo per sfogare la mia personale rabbia. Nemmeno una ragazza di strada priva di appartenenze ideologiche dovrebbe pensare che i maschi – ne le femmine – di sinistra odino chi si prostituisce. Spiego meglio: è ridicolo credere che quelli di sinistra odino la prostituzione, e quelli non di sinistra no.

Poi i meriti di Suburra. Mi piace leggere il sangue pompato a mille nelle vene periferiche di questo grande organismo moderno che è la metropoli. Perchè di sangue ce n'è tanto, in Suburra. E' un noir nostrano con molti ingredienti del Romanzo criminale, con una spezia in più: più bontà. Più sole.
Pasolini forse non c'entra niente, è una mia forzatura istintiva, però sesso, società e odori... sono quelli.
Il dove di questo romanzo è protagonista per conto suo. "Poveri ma belli". Ieri, Pasolini "cantava" gli Anni Cinquanta e Sessanta, oggi alcuni scrittori vedono le stesse scene con interpreti nuovi e a una manciata di chilometri più a sud, e a est. Cioè dove il cemento cresce come panna montata. Pure la Disney ci ha messo le fondamenta, a est di Roma.
 Avete presente Quer pasticciaccio brutto de via Merulana? Le fraschette e così via.
Voglio segnalare alcuni punti precisi.

p.47: doveva camminare prima di presentarsi davanti alla morte.
Non capita anche a voi? A me sì, la morte mi obbliga sempre a esercitare la prudenza.
p.66: (i sinistroidi) “troppo teneri, è da quel dì che non facciamo opposizione”. Tie’!
“Parlavano con impegno e passione come se dovessero – e io pensavo “POTESSERO”- salvare il mondo”. Con le parole. Vero, è capitato anche a me di sentirlo e ahime di farlo. Di crederci.
p.43: “Roma andava salvata, soprattutto da sé stessa”. Tutto ciò che è eterno a Roma, è bene comune.
p.43: “(il servitore dello Stato, uno dei Buoni) rivolse un’occhiata fugace alla ruota rugginosa” del Luneur, “monumento alla sua infanzia e a un tempo ormai fossilizzato. Come se quella città non fosse in grado di progredire sulle sue rovine, ma solo affastellare le une sulle altre” (male espresso o non l’ho capito). Ma c'è davvero una Forza del Male che cristallizza Roma - con tanto di monnezza sui marciapiedi -, o è l’umanità contemporanea che non è all’altezza della Storia? 

p.73: "fame di cubature". Immagine perfetta. "Povera Roma nostra forestiera" la Roma di fuori, cantava lo stornello.
p.77: “Ad Abbas piaceva lavorare di notte, era la sola cosa alla quale non si era abituato in tanti anni in Italia (in ognuna delle Piccole Città dove anche per un italiano può essere arduo integrarsi) non si abituò al fatto che il lavoro dovesse seguire il ritmo degli uffici e dei regolamenti comunali e non, al contrario, il ritmo del corpo o del bisogno.
84: Il samurai, da giovincello, lotta e perde contro “la società che lui voleva cambiare”; ma dove vai, a poeta? Il samurai finisce a fare il capobanda. Che poi è una forma di rivoluzione. O no?
86: Compare il fantasma del Dandi (Romanzo criminale); il coatto ripulito è affascinante; rappresenta il nostro tempo. Repelle e attrae. Forza magnetica, positivo e negativo, opposto che attira opposto, ma che non può combaciare o sovrapporsi. Quindi simbolo di società globale (ma chiusa) in cui l’unica regola non negoziabile è la promiscuità. Con buona pace degli intoller-anti.
‘Sto coatto ripulito era il Dandi. Sovverte la semplicità di un giovane kamikaze, troppo intelligente per scegliere uno sterile martirio e in cerca di un emendamento. Il Dandi è l’emendamento al solido ordine ideologico su cui il giovanotto aveva fatto perno per sopravvivere all’adolescenza ardente. Il coatto è modello neoclassico del neorealismo cinematografico.

"Vai, figluolo (fijo mio), e fai agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te". 
Il verbo del Fottili tutti. Ari-tie'!
Qui il Dandi "evangelista" veste i panni del maestro. Saggezza spicciola, di strada, contro i saggi che sono ormai schiavi di una fede, e quindi non più liberi, quando è proprio la libertà l’essenza che un maestro deve trasmettere a un allievo.
Il giovanotto supera l’età degli ardori. E diventa killer: prima killer di un sé stesso troppo debole, poi del prossimo che si frappone fra lui e i suoi obiettivi.
L’idealista diventa pragmatico.

Forse c’è un punto in cui gli estremismi si toccano, e questo sarebbe interessante nel tentativo di capire l’Italia e i suoi curiosi abitanti.
Secondo me, l’età dedicata ai sogni e agli slanci improbabili non va risparmiata ne spesa altrimenti. Ciascuno di noi, anzi, dovrebbe accertarsi di riuscire a viverla: è una fase importante, in cui si fanno esperienze importanti, e in cui anche ciò che non si fa diventa lezione di vita.
C’è una possibilità di rivoluzione per ogni individuo che cammina sulla Terra: è giusto che ognuno tenti la propria.
Mi piace che la densità di allievi che fronteggiano i maestri sia alta, additandoli come cattivi, e pronti a uno scontro senza esclusione di colpi. Fa molto Ken Shiro. Tra dieci secondi... morirai.

Sia le cose che non vanno, che non scorrono, che i lampi iconici e le splendide metafore sono motivi altrettanto validi per addentrarsi in Suburra. La via è aperta.

Però il dialetto romanesco se lo devono andare a ripassare…

lunedì 16 settembre 2013

A chi Silvio e a chi Catilina

- Che post lungo! Non lo leggeranno!
- Dissero una cosa del genere di Bohemian Rhapsody, dei Queen.
- Ah, ho capito. Però, che presunzione!
- Bravo! Questo non è il riassunto.

 Il libro in questione è una raccolta scritta in latino, molto famosa, “Le Catilinarie” di Cicerone.

La parola con cui giochiamo è “banditore”. Che finiate il post o meno, non importa. Sarebbe bello che leggiate il libro, quello sì.

Oggi, in Italia, c’è bisogno di tutto fuorché di divisioni e scontri fratricidi, e per essere chiaro fin dall’inizio dirò che questo post è privo di intenzioni propagandistiche e povero di faziosità. Posso dirlo perché ci ho lavorato ogni giorno da quando ho pubblicato il post “Libraio, perché no?”, vale a dire 18 lunghi giorni. L’ho pensato “grezzo”, l’ho steso con un occhio obiettivo, l’ho riletto per pulire passaggi incerti e parole usate alla leggera, cercando soprattutto le frasi partigiane che mi erano uscite spontaneamente, senza controllo. Non mi dispiace affatto aver limato e corretto il post. Anzi, me ne faccio un punto di merito.
Questo non è un blog politico. La porta è aperta anche ad argomenti politici, se espressi con garbo. Perché? Perché siamo in un paese in cui la politica conta molto ed è argomento comune. La politica entrerà nel blog così come potrebbe entrare in qualsiasi luogo dove due o più persone si confrontano, dalle aule dei tribunali ai mercati rionali.
Benvenuto cittadino libero. Lungi da me militante politico. Chiaro?
Be’, più chiaro di così… Qualche sforzo deve farlo anche chi legge, se no non c’è gusto.


Perché le Catilinarie?

Stavo cercando un libro breve da leggere alla svelta. Mi sono rivolto fiducioso allo “scaffale amico” e questo volumetto era tra i primi tre o quattro presi in considerazione. Ho scelto in fretta, mi pareva interessante: sulla copertina c’è un monile d’oro, forse un bracciale, a forma di vipera.
Dopo poche righe ho iniziato a fare associazioni con l’attualità di tiggì e giornali: lo spunto andava bene per un post. Intravedevo anche delle difficoltà, ma continuai a leggere determinato a trovare altre analogie... Finito! E mi sono detto: “perché no, sarà un post!”.
La lettura mi ha spinto a cercare altre fonti, per approfondire. Ho usato il libro “L’inverno della Repubblica", di Bocchiola e Sartori, e “Catilina” di Fini (1996!).
Perché questa cosa “classica” (vecchia) e lontana da me (ho fatto l’ITIS: zero latino)?
- Perché la vicenda raccontata e il suo contesto possiedono un fascino senza tempo, che mi piace sottoporre a chi vorrà leggere. Caccia alla gloria, delazioni, personaggi di enorme spessore, cupidigia e grandi manovre dietro le quinte: che romanzo!
- Perché questo libro contiene quattro discorsi pubblici (due ai senatori, due al popolo) sull’argomento della congiura. La congiura è intrigante, e senza essere citata è all’ordine del giorno da tempo (troppo tempo, per me). Un piccolo libro con dentro tanti spunti: è un notevole risparmio di tempo.
Com’è noto anche a chi non ha fatto il liceo classico (il libro è oggetto di studio a vari livelli, quindi è diffuso, e questo rappresenta un valido motivo per scegliere di parlarne pubblicamente), la congiura denunciata da Cicerone ha dei contorni incerti. Cicerone e Catilina erano concorrenti per un posto da console.
All’epoca non c’erano gli edulcorati confronti tivvù. Un’epoca d’oro, davvero… Catilina voleva prendere il potere illegalmente, con la forza: le elezioni "legali" le aveva perse contro Cicerone.
Cicerone, console, sostiene che a Roma vi sia un covo di vipere pronto ad esplodere. Qualcuno vuole sovvertire l’ordine della Repubblica, seminare il caos e raccogliere il potere assoluto. Un gruppo di uomini – perfino alcuni senatori – sta tramando la distruzione della città. Catilina è il capo. 
Lutto e disordine sono alle porte. Bisogna intervenire presto. Cicerone articola in alcuni discorsi il suo progetto: i congiurati se ne devono andare dalla città, da soli. Già su questo punto mi vengono dei dubbi. E sono venuti pure a Massimo Fini. E chissà a quanti.
Da quel che si sa, a Roma in quell’epoca c’era già un bel po’ di casino - ai limiti della guerra civile (scoppierà pochi anni dopo), e se un console temeva la sovversione, faceva prima a mandare qualche sicario a scannare i congiurati, o almeno a minacciarli seriamente.
Invece no: solo “oratio”. Molto nobile. E sospetto.
Alla domanda “siamo sicuri che la congiura fosse quella che ci viene presentata dalle orazioni di Cicerone?”, la risposta è un semplice no, non siamo sicuri. Cicerone era parte in causa.


It’s History, Baby!

Non dico che abbia inventato, dico che il buon Marco Tullio “Cicero”, magistrato dalla carriera folgorante (nato Cavaliere a Sora, ma da considerare come un cosiddetto “uomo nuovo”, fuori dalla casta senatoriale) e tanto auto-celebrativo da sembrare ridicolo, abbia ricamato un po’ sui fatti; si è destreggiato bene tra mostri sacri e pedine deboli di uno scacchiere complesso come il Senato di Roma, dove tutto era intrallazzo e compromesso privato. All’epoca, ottenne di essere chiamato “padre della patria”: non male per uno “di fuori”. Inventato no, dunque - movimenti oscuri ve ne furono ed è provato - , ma manipolato sì.
E’ una critica? Io penso che nel suo caso i mezzi furono all’altezza del fine: era un conservatore che vedeva minacciata la Repubblica, e per salvarla fece quel che potè. Aveva un enorme talento, e lo usò. Poi la sua rete cedette, venne assassinato e la Repubblica finì lo stesso. Ma scrisse, e tanto.
La Storia fece il suo corso. La ricerca storica pure. I testi di Cicerone sono utili sia alla Letteratura che alla ricerca storica. La ricerca non ha messo ancora la parola fine sulla Congiura (o le congiure) di Catilina. Nel corso del tempo, il “folle, scellerato” Catilina ha però guadagnato qualche punto.
Forse Cicero “scelse” Lucio Sergio Catilina come capro espiatorio; perché, seguendo la sua ricostruzione, un certo Pompeo e perfino un tal Cesare, due tipetti piuttosto influenti sulle sorti di Roma, passano da fessacchiotti strumentalizzati da Catilina, e così non può essere, dai! Potevano essere coinvolti fino al collo. Il primo valse a Roma la porzione maggiore dei possedimenti in Asia Minore e il secondo, be’, il secondo è Cesare!
Entrambi godettero di poteri senza limiti nello Stato più forte dell’epoca. Eppure questi due imberbi arrampicatori sociali sarebbero facili vittime del fascino del primo Catilina?
Cicero, a chi la racconti?
Pompeo non temeva nessuno, era er più; Cesare “sapeva” di doverlo diventare da lì a poco.
Due carichi da novanta congiurati sotto la guida di Catilina? Non che Lucio Catilina fosse un uomo qualunque (di stirpe nobile, amato dal popolo, dedito al vizio, fascinoso e “temerario”, secondo descrizioni coeve): aveva un curriculum interessante. Però è difficile crederlo capace di avviluppare nella sua trama tanto Cesare - che Cicerone tira in ballo, per ghermirlo, nella Quarta Orazione – quanto Pompeo, che l’onnisciente Marco Tullio riesce perfino a non nominare mai. 
Pompeo tornerà da oriente con l’aura di un semidio.
Cesare sfiderà gli dei stessi.
Catilina morirà a breve.
Ah! Destino crudele! A Cicerone, l’arte oratoria valse dunque qualche soddisfazione.
Come dice Antonio Conte: “Chi vince scrive la storia”. Come? Non l’ha detto Conte? Allora cito la citazione. Catilina ha sbagliato a non scrivere. Forse non era capace.
La Prima Catilinaria basta a persuadere il diretto interessato a lasciare la città. Il lettore viene convinto della sua colpevolezza. Troppo presto: Cicerone, da buon politico, comincia a lodarsi, a dire che gli dei sono con lui, fino al termine. Fino a che non ti viene in mente “l’unto del Signore”.
Mi piacerebbe sfruttare questo incensato quartetto di discorsi, passato alla storia come modello di oratoria e studiato tanto in Italia quanto all’estero, per sottolineare due cose ancora attuali in esso contenute: i tentativi di battere un nemico condizionando la giuria attraverso discorsi pubblici vanno a segno senza sporcarsi le mani se si è più che abili manipolatori, se si è magici. Poi: cambiano gli interpreti, ma i ruoli nelle umane vicende possono rimanere simili a distanza di millenni. La storia a cicli come la immaginava Isaac Asimov.
Ogni giorno si parla della vicenda di Silvio B (per merito di media molto motivati) come ventuno secoli fa si parlava della vicenda di Catilina (per merito di un Cicerone altrettanto motivato), e il luogo di queste due vicende è il medesimo: il Senato di Roma.
Ah-ah, ironia della sorte: al popolo romano del I sec. a.C. toccarono le trame di una manciata di uomini dalle incredibili capacità, Cicerone self-made man, Pompeo deus ex machina e Cesare enfant prodige, e a noi, italici del 2000, tocca "La CASTA"… la proporzione c’è tutta. 
Che vuoi farci? It’s History, Baby!


Un riassunto e un dubbio

Nel 63 a.C., Marco Tullio Cicerone viene eletto console. Il suo atto politico principale è far respingere la riforma agraria. Tale riforma avrebbe ridiviso le terre tra i cittadini liberi e gli amici dei propugnatori della riforma stessa, rimaneggiando i possedimenti dei grandi proprietari terrieri. Si trattava di una misura popolare, favorevole cioè al popolo e sfavorevole ai grandi gruppi di potere. Catilina era tra i favorevoli a questa riforma; era anch’egli un popolare, sebbene di nobili origini. I suoi nemici sostenevano che non fosse sincero, che speculasse sugli agricoltori per arrivare al potere. Anche Cesare faceva parte del partito popolare, ma Cicerone non lo ha mai attaccato frontalmente, anzi lo adulava. Se c’era da votare una proposta del popolare Cesare, Cicerone la avversava accanitamente coprendo al contempo Cesare di complimenti (Catilinam Quarta, IV.7). In quel momento a Roma le cose vanno peggio che nelle province: mentre Pompeo sbanca il Vicino Oriente e il Ponto, dentro le mura le lotte di potere fanno salire la tensione.
Il punto è che l’allargarsi dei territori controllati dalla capitale manda in tilt il sistema-repubblica. 
Immaginate un vasto quadro: l’Europa e l’Asia Minore. Vedete il Senato fratricida in Italia e una macchia d’olio con l’insegna romana che si espande a est (Pompeo e i suoi).
Ora fate zoom sull’Italia: gli agricoltori liberi erano la classe media del tempo, e tenevano in piedi la baracca perché producevano cibo e prestavano le braccia ad ogni evenienza. Sono indipendenti, organizzati in fattorie autonome. I ricchi di città, però, ampliano i propri appezzamenti. Sempre di più. Fanno “cartello” tra loro. Fagocitano le piccole fattorie. Allo stesso tempo le campagne militari, per forza di cose sempre più lontane, richiedono uomini. Le campagne italiane si svuotano. Gli eserciti si riempiono. L’equilibrio cambia: le derrate alimentari vengono da fuori.
Persone come Pompeo avevano il merito di acquisire nuovi mercati.
Gli eserciti crescono al punto che ogni generale ha il proprio: prevalgono gli eserciti privati, premessa alla guerra civile. Tra questi, quello di Pompeo è il più forte. Pompeo, lontano, ha poteri infiniti; la sua influenza è la maggiore, e la più temuta. Manda da mangiare ai romani. Roma dipende da lui. Quando torna, la congiura è acqua passata, ma ogni mossa, in patria, era fatta tenendo in considerazione lui, er più. La Repubblica, al suo ritorno, è meno robusta. Le fazioni si scontrano civilmente in pubblico e si scannano in privato. Ognuno pensa solo a sé, e la gloria di "Roma faro delle genti", è solo un pretesto dietro il quale celare gli egoismi più miopi. L’oligarchia si è liberata dai retaggi della rappresentanza. Il governo non è più res-publica, ma res-privata (perfino gli eserciti lo sono). Anzi, la Repubblica sta implodendo! Non regge le tensioni di una “Roma delle familie” dal metabolismo accelerato, che sta per trasformarsi, con dolore, nella “Roma di Cesare”. Costumi dissoluti imperversano e l’onore non è che un’attenuante per crimini orrendi.
In quello scenario, solo un ipocrita poteva biasimare chi frequenta attori, puttane e scommettitori. Il frequentatore sarebbe Catilina: pericolo pubblico numero uno.
In tutto ciò è il dissoluto Catilina a pensare di prendersi tutta Roma. "Ma che davero?"
Cicerone ne è certo, e lo sbugiarda in Senato, lui presente. Nell’opera, parla solo Cicero: chissà nella realtà? Come avrà reagito Lucio Sergio a un’accusa pubblica come quella.
Sarebbe stata una scena fantastica.
Sogno. E mi sorge il dubbio «Cicerone, non è che per caso volevi salvarti da un pericolo, reale, proveniente da gente molto più potente di Catilina? Non è che, per caso, hai attaccato Catilina per non dover affrontare nemici imbattibili?» 
Invece: merda su Catilina e incenso sulle opere di Cicerone, che etterne restano. Che bravo Cicero!
Gli direi questo: Be’, se è così, sappi che hai reso il “capo dei congiurati” famoso almeno quanto te, e forse gli hai guadagnato pure qualche “fan” in più.
Il console raggiunse il suo obiettivo. Il senatore decadde, e se ne andò con le pive e il gladio nel sacco. A Fiesole, dove lo attendeva un manipolo di fedeli. Morì in mischia, a Pistoia, contro un esercito di Romani. Sul campo di battaglia, i vincitori riconobbero molti loro amici. O almeno, così si dice.


Banditore e Re bandito

La retorica è l’arma in più di Cicerone. Avvocato, filosofo, letterato, Cicerone è diventato un simbolo popolare che resiste ai secoli: si dice ancora “fare da Cicerone” quando si portano i turisti in giro per la città eterna e gli si spiegano luoghi, fatti e storia. Portare in giro o prendere in giro...
Marco Tullio aveva un talento immenso, impareggiabile. E aveva le idee chiare. Era un conservatore che veniva dalla gavetta, e intendeva difendere lo status quo che gli aveva consentito di ascendere a cariche impensabili per la casta cavalleresca di cui era epigono. Avrebbe fatto di tutto, certo, ma preferiva non sporcarsi le mani, né la reputazione. Tanto più che c’era quel dono, nella tasca della sua tunica, quel dono formidabile che il tempo non ha potuto offuscare.
L’eloquenza, da usare senza risparmiare.
A me Cicerone sta antipatico.
Però… che genio!
Sì, dai: riconosciamo le qualità di chi non ci piace. Cosa giusta, onesta e utile. Ci servirà a capire la situazione e a fare scelte migliori; riconoscerne i pregi non sarà forse utile a prepararci al confronto? Era capace di falsità, doppio gioco e corruzione. Ottenne informazioni su Catilina da una donna: un altro classico dei romanzi di genere! Cicerone ha difeso molti clienti in posizione scomoda. Era un grande avvocato. Il migliore avvocato. Sapeva adattare i suoi messaggi all’uditorio che aveva davanti. Parlava al Senato e alla plebe. Ai liberti e agli ottimati. Sempre, senza interruzioni, si è giocato le sue carte, e devo ammettere che, in fondo, era un vincente. Vanitoso, incapace di vincere due volte vincendo sé stesso col riserbo, e anzi reinvestendo la vittoria per vincere ancora: sempre mortificare l’avversario! Sempre avere l’ultima parola!
Non mi piace perché è eccessivo: troppo auto-celebrativo, troppo “furbetto” nel tirare in ballo gli dei al termine delle orazioni, proprio alla fine.La fine resta impressa. Eccessivo ma geniale, ancora, nel ricorso a una PNL ante litteram (Terza, V.13).
Perfino Console grazie a trame e chiacchiere, nella Roma dei gladi e delle coppe: per me, scusate il candore, è troppo. Capisco Questore, ma CONSOLE!
Bandisce i concorsi su come condannare Catilina e i suoi amici. Non istruisce però – piccolo dettaglio – il processo. Ops! Ti costerà cara, Marco Tu’.
Bandisce - accezione differente di un verbo che egli padroneggia senza tentennamenti - un senatore romano dalla città: “Non ho il potere di mandarti in esilio – dice a Catilina – ma ti consiglio di auto-esiliari”.
Botte piena e moglie ubriaca: anche questo è un eccesso!
Un venditore di razza. Che si è scritto da solo la propria biografia e la propria bibliografia.
Self-made man fino al midollo, con molte zone d’ombra.
Il lignaggio era l’arma di Catilina. Della famiglia dei Sergii, era di stirpe regale, dunque, e ad ogni buon conto aveva sposato la figlia di un console. All’epoca delle orazioni era uno splendido quarantenne; conobbe Cicerone e Pompeo quando aveva ventun anni, durante una campagna militare. Era stato un giovane guerriero. Ebbe una carriera “politica”, fino a governare alcune province. Faceva gli interessi dell’azienda, cioè di Roma, ma alimentava per sé ambizioni ben superiori a quelle che un iter “togato” poteva consentire. Fedina penale opaca, molto consumata.
Un uomo di talento, dalle grandi speranze. Ma dal destino infausto: un re bandito dal regno, non si sa bene perché. Gli viene concesso di vivere perché era nobile? La vita non valeva molto a Roma!
Si tagliavano gole per molto meno.


Analogie, differenze.

A Palazzo Madama, a Roma, ci sono tante opere d’arte. Gli italiani non possono vederle, eppure appartengono a loro, perché il Senato, che sta lì, a Palazzo Madama, è degli italiani. Una di queste opere è un quadro di Cesare Maccari. C’è una doppia schiera di sedie di legno, in cerchio; e c’è un gruppetto di vecchi signori in tunica bianca, fanno capannello sullo sfondo; seduto in primo piano c’è un vigoroso uomo bruno, anche lui in abbondante tunica bianca.
E’ un senatore. Il senatore Catilina.
In questi giorni a Palazzo Madama si discute della decadenza di un senatore, il senator Silvio.
Stesso posto, 2075 anni dopo. Duemilasettantacinque.
Ma Silvio non è Catilina. Niente omicidi, solo... frode fiscale. Un Cicerone oggi userebbe alcuni elementi portati in aula dal Cicerone originale: quelli sulle frequentazioni del senatore da espellere. Svergognati, depravati (Seconda, X.23), gladiatori. Queste le compagnie dell’antico romano e, per analogia ma non per sovrapposizione, del moderno italiano: valgono lo spregio del popolo.
Solo che, guarda un po’, la gente comune ama Catilina. Che giocava coi fanti, per Giunone!
Uno su un milione, nella Roma dei fasti, sarebbe riuscito a scalare le gerarchie dalla provincia al foro senza sporcarsi le mani. Un uomo nuovo, che esce dall’anonimato della classe media e svetta sugli altri grazie a doti rare, tra le quali l’adulazione e la retorica. Un uomo dotato di talento straordinario: il talento di ammaliare la platea con le parole. Un uomo bramoso di potere, che vuole avere sempre l’ultima parola. Un retore capace di convincere gli astanti con argomenti apparentemente inattaccabili. C’è sempre un amico potente a sostenerlo. Sceso in campo nel corso honorum, scrisse la propria lettera di raccomandazione e la diede a suo fratello, anche lui operante nello stesso settore, perché la leggesse pubblicamente come se fosse propria. Un po’ sfacciato. Alleato degli aristocratici.
Faceva leva sui sentimenti di chi lo ascoltava, per convincerlo a seguirlo e a sostenerlo. Giocava coi santi. Divenne console a Roma. Si chiamava Marco Tullio Cicerone.
Ma Silvio non è Cicerone. Un avversario dell’aristocrazia, uno del popolo, contro Silvio oggi userebbe argomenti che i nemici di Cicerone usarono allora: fino ad ora è sfuggito dai processi grazie all’abuso di potere, si ritiri dalla vita pubblica se vuole evitare la persecuzione.
Cicerone, in declino, rifiutò di approvare la riforma agraria voluta Pompeo e da Cesare, in ascesa. Fu coerente, e lasciò Roma, esiliato. Aveva una splendida villa, a Brindisi.
Decadde dal potere per una legge retroattiva. All’epoca erano Severi, altro che Severino.
Roma Caput Mundi concentra in sé la maggior parte della ricchezza, mentre le masse sono alla fame, come capita anche oggi: tanta ricchezza in mano a pochi.
L’oligarchica casta politica se ne frega del popolo. Il governo è affare privato.
La civiltà è in declino, il malcostume imperversa.
Catilina faceva il demagogo col popolo.
Cicerone era un demagogo a tutto tondo, dal Senato alla suburra.
Altre analogie? Altre differenze? Se siete arrivati in fondo, trovatene una. 
Qualche sforzo deve farlo anche chi legge, se no non c’è gusto.

Ma davvero l’Italia è nel G8?
P.S.: Tutti i libri usati per questo post sono di… Silvio, o di sua Figlia. 


giovedì 29 agosto 2013

Libraio, perché no?

La persona che sceglie di lavorare come libraio - di propria iniziativa, senza ricatti e in presenza di numerose alternative -  è insieme una timida personcina che ha fatto sua l'arte di accontentarsi, un pericoloso fanatico della preservazione culturale e un amante platonico.
Il libraio è colui che vende libri. Li vende e non li scrive e non li fabbrica, non li commissiona, non li inventa. Ama le lettere, e sa che il suo sentimento non sarà mai appagato. Non potendo conoscere tutte le sfaccettature della letteratura, si accontenta di frequentare e amare parti del tutto. Platonismo puro.
Io sono un libraio.
E adesso sono un libraioblogger: scriverò tanti fumetti che scenderanno a tendina in una bella pagina web, e in ogni fumetto scriverò qualcosa su ciò che le pagine di carta - ma non solo di carta - mi hanno dato.
Finora ho sempre sfogliato da destra a sinistra, ora inizio a scrollare da su a giù.
Sebbene possa sembrare, in modo del tutto legittimo, piuttosto presuntuoso, uno dei moventi che ho per uscire dal canale analogico della libreria ed entrare in quello virtuale della rete è il movente della "resa".
Chi è del mestiere ha familiarità col termine: coincide con un alleggerimento del magazzino, una telefonata al corriere e la preparazione di una spedizione. In questo caso ci sono delle differenze, ma in sostanza io rendo.
Restituisco.
"Cosa"? e "a chi"? sono domande legittime. Difficili ma legittime, e proverò a rispondere a parole.
La somma delle opere letterarie che ho letto è per me il più grande patrimonio che possiedo.
L'ho ricevuto da perfetti sconosciuti. A volte ne ho comprato un pezzetto, altre volte ne ho ricevute in dono preziose parti. Altre volte ancora ho usufruito di prestiti. Grazie amici!
Fatto è che mi pare proprio di avere accumulato una grande ricchezza: le mie letture.
Sarebbe stato equo e da persona "normale" lasciare tutto così: prendere libri come si prendono vestiti, bevande o treni, e vivere pensando che le cose importanti fossero altre. Invece no.
Invece un bel giorno, in un'epoca che sembra lontana ma che in realtà è giusto dietro l'angolo - ovvero gli "Anni Novanta" - ho iniziato a lavorare coi libri. Grazie ai libri guadagnavo denaro.
Sbilanciamento.
Ricevevo dai libri anche il sostentamento quotidiano.
A quel punto si è innescato il meccanismo fantastico che ha spinto la mia vita fino al punto in cui si trova ora.
E ora si trova in una comunità virtuale e inafferrabile, liquida e integrata, dove posso pubblicare perfino confessioni spontanee non richieste.
Il meccanismo ha portato il libraio al punto di domandarsi, allo specchio: "non credi che potresti dire su internet quello che dici ai clienti? Sarebbe bello nei confronti dei libri. E ti farebbe bene, perché ti sentiresti più leggero!"
Le opinioni e perfino le idee suscitate dalle letture, io le condivido, quindi le diffondo; e questo è sempre un servizio nei confronti delle Parole e delle Storie!
Comincio a parlare di soggetti inesistenti, e questo dimostra la difficoltà a cui accennavo prima: se chi legge non pensa che opinioni e idee siano cose importanti, pesanti e in qualche modo concrete, non capirà questo discorso.
Le sensazioni e perfino le emozioni suscitate dalle letture, allo stesso modo le ri-volgerò alla libera rete di interconnessi. Rivolgere è anche restituire, nel senso di volgere verso la sorgente della parola, del pensiero o di altre forme di espressione umana. Le parole che mi sono arrivate, io le rilancio.
Alcune di quelle forme di espressione, tutti lo sanno, ci fanno provare ebbrezze inimmaginabili. Ci si innamora di quelle parole, ci si innamora degli involucri che le custodiscono: i libri! E quando si è innamorati lo si vuole dire a tutti - be', si vorrebbe, dipende. "Quando si è innamorati la gioia sprizza da tutti i pori", è irrefrenabile, è fuori dal nostro controllo. Insomma, che lo si voglia e che non lo si voglia, si finisce per spargere un po' di quella gioia. Condividere può diventare inevitabile.
Il libraio trasferisce le proprie sensazioni a chi gli chiede qualcosa sui libri.
Succederà su questo blog.
Campare facendo il libraio non è difficile come si sente dire in giro. Se fai il libraio, difficile è vivere alla grande, difficile è comprarsi tutti i libri che si vorrebbero a casa, se ad esempio ti svegli all'improvviso e vuoi leggere proprio quel libro che ti era piaciuto il pomeriggio precedente. Campare, si campa. E scrivere questo non è lamentarsi.
Io per esempio, sono tutto sommato contento della mia vita da libraio.
Lavoro nella libreria di altre persone.
La Piccola Città in cui vivo è perfetta per questo lavoro: è raccolta, c'è vivacità, è ordinata, c'è ancora spazio per tutti. Una Piccola Città che cresce, che piace alla gente che ci vive.
Penso che il mio mestiere sia in estinzione. Questo, lungi dall'alimentare in me angosce profonde e inconsolabili, mi esalta. Dà un senso alla mia vita.
Come, del resto, glielo dà il "restituire".

giovedì 22 agosto 2013

Parto programmato

Ho letto che il primo blog è nato il 18 luglio 1997. 
Era scritto su un sito che ritengo attendibile, ma ci ho creduto subito solo perché il mio è nato il 18 agosto scorso. Voglio dire: qualsiasi fondazione predilige un riferimento glorioso rispetto a un riferimento generico e privo di cose in comune. E' già più facile da ricordare.
Mi sono informato un po’, e ho scoperto che la prima pubblicazione è avvenuta il giorno 23 del dicembre 1997.
Così mi è piaciuto programmare il parto del mio blog primogenito (e unigenito) il giorno 23.
Che è appunto oggi. Almeno: qui, nella piccola città in questa parte di mondo.
Ecco.

Si parte. Partire è anche "fare parti". Dividere, o anche condividere; e dividere è anche moltiplicare.
Lunga vita a Bloghema!

Sono all'inizio. Solo.
E... perché lo sto facendo?
Questa domanda è il minimo sindacale per cominciare a parlare.
L'essenza è che lo faccio perché scrivere è bello.
Sarà pure l'essenza, però è scontata e striminzita: mica siamo su Twitter!
Dunque (adoro le nonfrasi). Oltre al piacere di scrivere c'è dell'altro. C'è stata una riflessione sul pubblicare, una sul confrontarsi, una sui contenuti da trattare. C'era ancora dell'altro, però: per trovarlo dovevo sbirciare in qualche vecchia lettura, perchè era una ragione che condividevo, ma l'aveva scritta qualcun'altro, e non mi era chiaro chi, cosa, dove...
In un volumetto che si chiama "L'Aleph" ho ritrovato una frase perfetta:

"prima di vedere il mare, il viaggiatore avverte un'agitazione nel sangue".

L'ha scritta Borges. Ho controllato, è stata pubblicata nel 1952; io l'ho letta su un'edizione del 2001 (già nuovo Millennio: sembra più vecchia), e descrive la sensazione che ho nell'aprire il mio primo blog.
Ammesso che ci riesca.
Col web non si scherza: va bene la democrazia della rete, ma se non ci sai fare sono guai.
Avvicinarmi in modo irreversibile al web suscita in me ciò che l'avvicinarsi al grande mare suscita al viaggiatore. Ho un'idea di ciò che mi aspetta, ma non è precisa, e non la so definire. Questo mi da un brivido, e mi piace: è una calda notte d'estate.