giovedì 22 dicembre 2016

L'uomo assente ha detto Eccomi!

Libri: Eccomi, Fuggire da sé, La fatica di essere sé stessi.
Parole: assenza, famiglia, responsabilità
+ appartenenza.

Se niente importa, Ogni cosa è illuminata, Molto forte incredibilmente vicino. Tre opere, tre prove di originalità ma tutte di successo, e ora, “Eccomi”, ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer apprezzato da critica e pubblico. E’con gioia che dico: mi è piaciuto tantissimo!
Dire che Eccomi sia sull’allontanarsi di una coppia è riduttivo, ma ho pensato che quell’“eccomi” strillato in copertina volesse farmi pensare al suo contrario, il “non-esserci”, l’allontanarsi, l’estrangement, come ha scritto Foer stesso nella propria lingua.
Sono talmente convinto di questo paradosso, che non solo il nucleo del post è l’ASSENZA, ma ho trovato anche dei libri su cui appoggiare questa riflessione. Si tratta di due saggi sul “non essere”, e spero proprio di dimostrare che c’è un legame tra una certa saggistica e la letteratura contemporanea. O almeno con il “non-eccomi” che è cardine di questo romanzo.

I protagonisti di Eccomi sono Jakob e Julia Bloch, 40enni con tre figli maschi e un cane, di Washington D.C.
L’elenco degli spunti che la loro storia mi ha dato è semplicemente interminabile. Qui, però, ho scelto 3 parole-chiave più una, perciò mi auto-censuro volentieri e parto da questo punto: Jakob e Julia sono cresciuti bene come famiglia, non altrettanto come individui.
Come famiglia, hanno già adottato una lunga serie di norme e rituali, e hanno perfino affinato quelle tecniche di reciproche sopportazioni, e concessioni, e omissioni, e orecchie-da-mercante in grado di assicurare una pacifica convivenza. Sembra impossibile che stiano trascurando qualcosa… Com’è, come non è, i binari delle loro vite non sono paralleli. E’ l’inizio della storia e li vediamo seduti davanti a un rettore di scuola ebraica, che divergono sulla questione del Bar Mitzvah di Sam, il primogenito. Le scene successive però ci illustrano i loro giorni da fidanzati, fatti di poesia e intimità, e non c’è dubbio che i due abbiano per anni formato una brillante coppia americana, felice sotto tutti i punti di vista. Foer ci racconta un allontanamento: tra loro, e di loro da sé stessi. Entrambi sono cercatori di consapevolezza, e di significati, però hanno bagagli che li frenano, vivono zavorrati, sembrano sovraccarichi, e la loro ricerca annaspa nel ménage familiare. Il loro amore è così: “era troppo amore per essere felici” (p. 601). Nel caso di Jakob, che mi sembra proprio un ottimo accumulatore, la zavorra ulteriore è l’appartenenza, passiva, alla comunità ebraica. Suo padre, Irv, sembra inserito da Foer apposta per fornirci un riferimento per capire chi sia Jakob: Irv Bloch, personaggio poco definito, è un patriarca ingombrante, un uomo diretto verso la terza età mentre lotta col proprio tempo, convinto di una certa superiorità ebraica. Jakob non è come lui. I loro dialoghi sono esilaranti, spesso Irv rimprovera il figlio per non aver ancora scritto un libro che racconti la storia degli Ebrei. Ma Jake scrive per la HBO e preferisce occuparsi “solo” di intrattenimento. D’altra parte è bravissimo a distrarre gli altri e a distrarsi (smarrisce drammaticamente un cellulare…).
Julia è architetto, e mamma, tanto mamma! Troppo mamma: quando conta i suoi figli include anche il marito. Si sorprende a progettare monolocali dove vivere da sola. Cerca di giustificare questo sogno ad occhi aperti col fatto che è costretta a sobbarcarsi gli oneri più pesanti della famiglia. E’ colpa di Jakob! Cosa è che ti blocca, Julia, cos’è che ti impedisce di portare fino in fondo un tradimento? Prevale la disciplina, la stessa per cui obbligherai il tuo primogenito a fare Bar Mitzvah? Prevale la colpa?
Nessuno dei due è cresciuto individualmente, pur avendo una profonda esigenza di farlo.

Tappa dopo tappa, i nostri  protagonisti superano le vicende della vita, talvolta disonestamente, ma sempre con una valida ragione! Ragionano benissimo. Ma un simile modo di procedere dove conduce?
Non c’è dubbio che “avere figli” sia una scelta di appartenenza particolarmente delicata. Come innumerevoli coppie, anche loro scelgono con convinzione di avere figli; questo progetto così importante lo condividono totalmente. La vita da famiglia, però, sembra aver distratto Julia e Jakob; li ha distolti sa sé, o forse li ha del tutto fagocitati. Come un buco nero, la forza creatrice iniziale rischia di risucchiare perfino sé stessa. Da questo punto di vista, la trama è davvero avvincente. E non vorrei aggiungere altro sulla storia. Solo un elemento: a metà libro circa (p. 312) nell’intimità dei Bloch si accende una nuova luce, che ci consente di vedere molto lontano. Succede un fatto straordinario in Israele, un fatto per cui ogni singolo ebreo vivente sul pianeta si sente chiamato in causa. Per me è stato come se le pareti di casa Bloch cadessero a terra all’unisono, ma senza danni, come una casa di Barbie. Se la Letteratura ti mette dentro a una storia più lunga della tua vita o può farti partecipare a qualcosa in cui son coinvolte altre persone, altri popoli di altri tempi e altri spazi, allora mi sembra che in quel passaggio lo scrittore renda plastica l’esperienza letteraria attraverso l’irruzione della Storia in casa Bloch.
Come fa? Così: C’è un cataclisma in Israele, il paese è in ginocchio e circondato da nemici pronti a finirlo. La patria chiama! E’ ora di rispondere “Eccomi!”

E Jakob che fa? In questo punto del romanzo si fondano coerenza del personaggio (Jakob), stupore del lettore (io), creatività dell’autore (Foer): l’autore svela, con Jakob, una interiorità umana decisamente difficile da descrivere -impossibile per me ora- ma, credetemi, bella da leggere. Sembra ovvio che il nostro Jakob risponda “eccomi”.
Invece non parte. 
Fa un pezzetto di strada e torna indietro. Meglio non essere in Israele nel pieno di una crisi e restare a Washington D.C., a non-essere né me né chi ci si aspetta che io sia.

Qui, viene a farci compagnia David Le Breton, autore di uno dei saggi che ho letto per arricchire la mia esperienza di Eccomi. Le Breton ci dice che oggi personaggi e persone sono spesso assenti da sé, che la tentazione dell’assenza è al centro della letteratura. Lo dice attraverso un libro recentemente pubblicato da Raffaello Cortina: Fuggire da sé* (questi concetti si trovano a pag. 168 e a pag. 166). Secondo lui, la fonte di questa forza dell’assenza è l’“individualismo democratico delle nostre società”. Questo mi ha fatto pensare. Sarebbe interessante approfondire questa osservazione, ma mi piace anche evitare la spiegazione e passare direttamente a dire che, riflettendoci, mi sono detto che viceversa l’essere assenti da noi stessi (per distrazione, per routine, per pigrizia o chissà cos’altro) è la fonte dell’individualismo democratico. Per esempio sono io responsabile delle reazioni alla mia cultura di provenienza: se ne accetto le regole, se la subisco o se la stimolo contrastandola. 
L’individuo è consapevole e presente per definizone. Chi non risponde “presente” è meno individuo di chi lo fa. Se io fossi sempre responsabile e presente nei miei gesti, ridurrei la mia quota di contributo alla società individualista; per Jakob è un atto di responsabilità criticare la propria cultura di provenienza (facendo venire l’ulcera a suo padre), rompere con ciò che è logico per tutta la comunità. Jakob sceglie di essere assente per Israele, sulla base di una reazione alla propria cultura di provenienza e nonostante il suo senso di appartenenza. 
La sua ritirata è come guardarsi allo specchio e dirsi, dopo averci soffiato contro: “Ecco-Me”. E in quel momento è, sì, un uomo assente, ma che si comporta in modo responsabile, come raramente aveva fatto lungo la sua storia. Ammette chi è, anche se se ne vergogna. Io sono le mie scelte, e davanti alla mia responsabilità non abbasso lo sguardo, non lo distolgo e non mi tiro fuori, non mi dis-traggo, non me la posso cavare dicendo che la società è individualista! Tutte le scelte sono proprie. Questo vale se la società è democratica, se è individualista, se è teocratica e perfino se è collettivista. Dare la colpa agli altri non è l’essenza dell’individualismo. Colpa della democrazia occidentale, quindi? Chiedete a Le Breton! Vi dirà anche cose interessanti circa la voglia di lasciare un segno sulla società (vedere pure cap. V di Eccomi), e sulla competitività che ne consegue. Poi nelle pagine di Le Breton c’è un gancio formidabile che acchiappa Eccomi e lo rende più interessante: “scegliere fa bene! Non scegliere conduce alla depressione”. Non scegliere è un’espressione del non essere. 

Su questo punto converge anche un altro libro recente, più tecnico: La fatica di essere sé stessi**, di Alain Ehrenberg, Einaudi. Lì si legge pure che l’inibizione, quel sentirsi bloccati - a una festa come in ambito professionale  - che equivale a non-fare-qualcosa è sintomo di depressione. Non è a caso che si usa il termine “desiderio” e non “esigenza” di essere sempre all’altezza. Qualcuno, in incognito, oggi si aspetta qualcosa da noi? Be’, ma certo! E noi ci affanniamo su cose che, prima, non erano importanti.
Stando a questo, Julia & Jakob sembrano entrambi depressi. E, se posso dire la mia, ci sta. Dov’è il bello? Secondo me il bello è che Foer racconta i loro di tentativi di redimersi.
Provano a redimersi sia per fare “la cosa migliore per i ragazzi”, sia per sentirsi meglio e, una buona volta, accettare l’impossibilità dell’impresa. Io aggiungo, da fruitore dell’opera: tentano di salvarsi per, finalmente, essere sé stessi, smettendo di pensare a come dovrebbero essere.

Quando ci si sente in modalità “vorrei-ma-non–posso”, si cerca qualcosa che offra quel sollievo tanto desiderato: la GIUSTIFICAZIONE. A cosa? _______  oh, a tante cose! Ognuno ci metta la sua.

Su!

(la traduzione di Eccomi è a cura di Irene A. Piccinini)

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3 commenti:

  1. Ciao Ema, come promesso eccomi qui!
    Ho letto coninteresse il tuo post, fra l'altro di questo autore avevo già letto due libri, e devo dire che il ritratto di questa famiglia non è dissimile da quello di tante altre famiglie contemporanee.
    C'è una coppia, c'è la passione che piano piano si trasforma (parafrasando "4 matrimoni e 1 funerale": quando la passione finisce e non si sa cosa dire, allora si fanno i figli così si ha qualcosa su cui litigare per il resto della vita), i figli e... e una serie di "must" che provocano un vuoto, un'assenza, un "siamo sicuri che doeva andare così? Chi sono, cosa vorrei essere?". E che non si risolve, simil Zeno se non fosse scoppiata la guerra.
    Sempre sull'argomento, ti consiglio un libro di un'autrice francese che apprezzo molto: "L'amore è sopravvalutato" di Brigitte Giraud.
    Ti lascio il link del mio blog, così puoi passare a trovarmi:

    https://francescavanniautrice.blogspot.it/

    Un abbraccio,
    Francesca.

    ps: posso condividere il tuo post su facebook? Attendo risposta, prima di fare qualsiasi cosa!

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    Risposte
    1. Ti ringrazio profondamente. La sottomissione ai must oggi avviene silenziosamente e addirittura nella convinzione di essere invece originali e unici. E' vero, lo siamo: siamo tutti unici, il guaio è che non lo sentiamo, lo pensiamo e basta. Pochi si prendono la briga di fare scelte PROPRIE. Puoi condividere su facebook, nessun problema per bloghema :)

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    2. Come avrebbe detto il Faber, sono pochi quelli che vanno avanti mentre gli altri si fermano. E sono eccezionali.
      Vado a condividere, un abbraccio!

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